La funzione dei festival e la scomparsa degli intellettuali

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Estate. Tempo di festival. Sono appena tornato dal MOF (Macerata Opera Festival) dove ho visto tre opere in tre giorni: Carmen, Macbeth, Rigoletto. Tempo fa ho dedicato una delle mie rubriche su Amadeus (versione cartacea) a cercare di spiegare l’importanza dei festival nella cultura operistica contemporanea.

Come ha scritto Bernard Levin, il festival “ideale” è strettamente legato alla località in cui si svolge che deve essere “abbastanza grande da poter alloggiare tutti coloro che vogliono parteciparvi, ma abbastanza piccola perché vi predomini, durante il suo svolgimento, il clima festivaliero [its festival function]” (B. Levin, Conducted Tour, 1981).

I festival: Bayreuth e Salisburgo

Per quello che riguarda l’opera, due sedi “archetipiche” sono state senza dubbio Bayreuth e Salisburgo. Macerata è in questo senso un luogo ideale e il “clima” festivaliero c’è. Ma in che cosa consiste, più precisamente, la “funzione-festival” di cui parla Levin? Perché i festival sono così importanti per il mondo dell’opera?

Si può tentare di rispondere a questa domanda tenendo presente che l’opera è attraversata da una sorta di tensione utopica che la spinge continuamente fuori dalla routine, fuori dal mondo “normale”. Il grande utopista Charles Fourier ha scritto molto significativamente che l’opera dovrebbe sostituire il culto religioso (Le nouveau monde industriel et sociétaire, 1829). Essa dovrebbe essere il modello della “educazione armonica”. È utopia incarnata.

I festival estivi hanno solo preso il posto della stagione di carnevale del passato. Anche quello estivo è infatti un tempo “sospeso”, quello della “vacanza”. Ogni festival ha dunque bisogno di una poetica o di un’anima, che faccia sentire i partecipanti membri di una “comunità”. Le “comunità immaginate” (nel senso di Benedict Anderson) dei frequentatori di festival sono spesso identificate con delle élites, anche se non necessariamente in senso sociale. Talora sono delle élites cui non manca una componente autoironica.

Il rito del pic-nic in smoking a Glyndebourne

Basti pensare al rito del pic-nic in smoking durante i lunghissimi intervalli delle opere al festival di Glyndebourne. Smoking, anzi dinner jacket, dai colori più eccentrici che ti puoi figurare consumati tra le pecore che brucano. Il glamour operistico è strutturalmente autoironico.

Tornando a Macerata, il modo partecipativo e comunitario, inseparabile dal “clima festivaliero”, è passato quest’anno dall’uso dei social in una particolare declinazione. Ho preso parte infatti a delle conversazioni concepite a mo’ di “opera lounge”, cioè di “salotto” in cui si parlava di opera con diversi interlocutori presenti al festival. Ero insieme a Biagio Scuderi e Alberto Mattioli (dunque sotto l’egida di Amadeus on line).

L’esperimento dell’Opera Lounge Amadeus

Tali conversazioni sono andate “in diretta” sulla pagina facebook del MOF. Quasi tutti gli ospiti erano però i protagonisti dei tre spettacoli che stavano per cominciare. Col risultato che sono diventate delle presentazioni più che delle conversazioni. Nulla di male (anzi, molto di bene), ma mi ero fatto un’altra idea del format “opera lounge”. Meno male che si è reso disponibile Giuliano Ferrara, col quale ho potuto parlare di “melomania” in un modo totalmente svincolato dalle opere in programma.

Quello che mancava nel nostro “salotto” erano insomma gli “intellettuali” senza i quali il “clima festivaliero” rischia di periclitare verso derive discorsive fatte di clichés, slogan, gossip, réclame, retorica (soprattutto quella delle “magnifiche sorti e progressive”).

Immagine di copertina: prove di Carmen in scena al MOF

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