Si può considerare il Macbettu di Alessandro Serra come un’opera? Eccome! O a spingermi a considerarlo tale sono solo le mie ossessioni pan-operistiche? Perché è così necessario riscrivere oggi un soggetto così arcaico come il Macbeth?
Penso a Verdi, Ernest Bloch, Šostakovič, Sciarrino, ma anche a Orson Wells (con le musiche di Ibert) o a Kurosawa o, ancora, sempre in Giappone, all’adattamento di Yukio Ninagawa. Conosciamo bene le mitologie del “suono primordiale”. Naturalmente viene in mente il mi bemolle maggiore “acquatico” come suono dell’Origine nella tetralogia di Wagner.
Ma come interpretare il traumatico, metallico clangore con/da cui tutto incomincia nel Macbettu? In quest’ultimo non c’è nessun olismo sonoro originario, come in Wagner, bensì un trauma acustico che agisce come una ferita, una scissione primordiale. Tornerà variato nella scena del banchetto e come postludio, terrificantemente amplificato. Tutto incomincia ma anche finisce con quel rumore ferrigno. Uno degli aspetti più interessanti della partitura sonora di Macbettu è l’integrazione tra suoni registrati o tecnologicamente mediati e quelli prodotti dal vivo. Uno di questi ultimi, particolarmente memorabile, è quello, blasfemo, del pane carasau schiacciato dai piedi “pesanti” del fantasma di Banquo.
Un altro, straordinario, è il parallelepipedo della bara del re che in posizione verticale risuona come uno strumento ancestrale (una sorta di “palo della pioggia”). Suoni acusmatici registrati che assumono un particolare rilievo drammaturgico sono i grugniti dei porci nella scena della cena che precede l’assassinio del re e lo spaventoso ronzio delle mosche del sonno nel vuoto abissale che ad esso segue.
Il termine soundscape sarà anche inflazionato, ma rende benissimo il lavoro di composizione sonora (più che musicale) che è consustanziale alla costruzione scenica dello spettacolo. La traduzione in sardo del testo shakespeariano restituisce una parola che sprigiona una potenza tellurica anche quando proviene dal grottesco parlottare delle streghe.
Le voci degli attori (tutti maschi e tutti bravissimi) diventano canto, talvolta anche fuor di metafora (basti ricordare il motivo-refrain “Mac-bet-tu!”). E, come un alone misterioso, inquietante ma anche affascinante, tutto è avvolto da delle “voci” prodotte dalle famose pietre sonore di Pinuccio Sciola ricomposte da Marcellino Garau. La gamma va da una sorta di ribollimento ctonio, sisimico, a dei suoni flautati e striduli. Macbettu è un’opera in cui al posto della musica c’è il suono, in cui il suono diventa musica.
Foto Ph. Alessandro Serra