Cosa succede se Otello diventa bianco?

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Incomincio il mio post ferragostano con un aneddoto, anzi con una parabola. Una decina di anni fa un mio collega italiano ha tenuto un seminario di opera studies in una prestigiosa università statunitense che ha una sede nel Bel Paese.

Nella sua presentazione power-point aveva inserito un’immagine di Mario Del Monaco nelle vesti di Otello. Naturalmente con la pelle annerita e l’orecchino al lobo destro. Un allievo di colore dichiarò di essersi sentito offeso. Il seminario venne subito sospeso e il mio collega sostituito. A nulla valsero le sue proteste, sacrosante, sulla natura antistorica e in definitiva antipedagogica del politicamente corretto così concepito.

Gli spettacoli black-face

Sono d’accordo con Slavoj Žižek che la “political correctness” è quel male che pretende di curare (per parafrasare la famosa definizione della psicoanalisi di Karl Kraus), ma prima di condannarla bisogna imparare a comprenderla.

Gli spettacoli black-face (pensate al “primo” film sonoro: The jazz singer del 1927 con Al Jolson) sono troppo recenti e il loro razzismo “ingenuo” troppo plateale per non risultare ancora imbarazzante all’interno della società americana. Non a caso è statunitense Tamara Wilson, il soprano che un paio di settimane fa ha litigato con l’Arena di Verona perché non voleva cantare Aida truccata di nero.

Luglio Musicale Trapanese: Otello

A questo pensavo mentre a Trapani assistevo all’Otello di Verdi messo in scena da Andrea Cigni con un Moro perfettamente bianco. Questo è un tema che mi sembra molto più interessante delle quattro natiche dei due commilitoni di Jago che facevano la doccia nudi nel primo atto (sulle quali natiche si sono dette tante sciocchezze inutili).

Nel mondo anglosassone, Otello black-face è ormai bandito dalle scene. Se trovi un tenore nero come Ronald Samm per interpretare il ruolo (così nel 2013 all’Opera North di Leeds), allora bene, altrimenti guai! Annerire la pelle di un cantante bianco fa riemergere (ritorno del rimosso?) la vecchia pratica razzista del black-face.

Anche l’ultima produzione del Met di Otello (2015) segue questo principio: il grande teatro di New York ha definito “completely unthinkable” l’ipotesi di truccare di nero la pelle del tenore Aleksandrs Antonenko.

Implicazioni drammaturgiche

Ma questione del razzismo a parte, cosa succede a livello drammaturgico se Otello diventa bianco? Cosa succede quando Jago dice di lui che odia “quel moro” e Desdemona che ama le sue “tempie oscure”? L’effetto è dissociativo e “controfattuale”. Ma sono finiti i tempi in cui da Jonathan Miller a Dario Fo si cambiavano le parole del libretto per integrarle il più possibile nel contesto dell’attualizzazione registica. Non c’è più bisogno di dire “il nemico è vincitor” al posto di “Bonaparte è vincitor” se ambienti la Tosca negli anni dell’occupazione nazista.

Esperire i due tempi: libretto e allestimento

Il pubblico, infatti, si è abituato alle discrasie audio/visive ed è in grado di cogliere (e di esperire) simultaneamente i due tempi – quello del libretto e quello dell’allestimento. Anche la “verisimiglianza” è un fatto storico che cambia nel tempo e da genere a genere.

Tutto ciò costituisce una novità di grande rilievo che apre al teatro di regia ulteriori spazi di interazione con un pubblico che sta diventando sempre più disponibile all’idea dell’opera come neutro plurale.

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