Non era mai successo, almeno a memoria mia. Presto tre delle quattordici fondazioni lirico-sinfoniche italiane avranno un sovrintendente straniero: un francese, Dominique Meyer, alla Scala; un austriaco, Alexander Pereira, al Maggio musicale fiorentino; un tedesco, Sebastian Schwarz, al Regio di Torino.
Nulla di scandaloso, anzi. In tempi di sovranismo impazzante e ragliante, è anche politicamente un ottimo segnale, e proprio mentre il ministro Bonisoli, impegnato a far danni fino all’ultimo momento utile, ha appena smontato la riforma Franceschini che ha portato alla testa di alcuni musei italiani degli ottimi manager stranieri.
L’opera è da sempre cosmopolita
Chi blatera che succede solo in Italia, naturalmente, non sa quello che dice. Se c’è un ambiente da sempre cosmopolita è quello dell’opera. E infatti Meyer prima era alla Staatsoper di Vienna. Un belga, Serge Dorny, passerà da Lione a Monaco. Il tedesco Alexander Neef, già a Toronto e Santa Fe, andrà a dirigere l’Opéra di Parigi, eccetera.
Semmai, la domanda da farsi è perché l’Italia produca così pochi sovrintendenti di rilievo. Per anni, nei maggiori teatri italiani si è giocato alle sedie musicali (appunto), con gli stessi personaggi che saltabeccavano da una poltrona all’altra.
La provincia è più innovativa
Oggi il panorama è meno monotono. Però stupisce che le personalità più interessati, più moderne e innovative, capaci di cercare sponsor e di curare la comunicazione, di rapportarsi con le comunità locali e di programmare in maniera non banale, lavorino per lo più in provincia, a Macerata o a Piacenza, a Bergamo o a Pisa o a Novara.
Tanto per fare nomi, parliamo di manager “puri” o di artisti prestati al management come Luciano Messi o Barbara Minghetti, Cristina Ferrari o Francesco Micheli, Stefano Vizioli o Corinne Baroni. Personaggi che sarebbero ampiamente abilitati a prendere la guida di qualche teatrone. Ci vorrebbe, però, una politica un minimo competente e lungimirante: chiediamo la luna, lo sappiamo.