Il Parsifal “di” Graham Vick (e volendo anche di – senza virgolette – Richard Wagner) che ha inaugurato la bella stagione del Massimo di Palermo ha suscitato molte discussioni e alla “prima”, dicono (io ho visto la replica di giovedì 30), pure qualche contestazione nei confronti del regista.
La tesi, in effetti, è abbastanza urticante. In soldoni, i cavalieri del Graal sono soldati di oggi in mimetica e mitra dispersi in qualche deserto iracheno o afghano, fra i quali si aggira, dacci oggi il nostro peacekeeping quotidiano, un Amfortas-Cristo con la corona di spine e il mantello rosso.
Una religione in crisi perché ipocrita e imperialista verrà sostituita da quella rifondata da un altro Cristo, ovviamente Parsifal, finalmente sincero. E allora lasciate che i bambini vengano a me, nell’Incantesimo del Venerdì santo modello “United colors of Benetton” con i ragazzini multietnici che compongono insieme un muro azzurro cielo e nel finale con lui che predica ai suddetti fanciulli.
Si può essere d’accordo o no, ovvio. Però stupisce, nelle dotte recensioni e nei commenti prêt-à-penser del foyer, la tipica incapacità italiana di distinguere fra scenografia e regia e di valutare la seconda nei suoi aspetti tecnici. In altri termini, è assolutamente legittimo dissentire da Vick e forse è perfino giusto.
Ma è innegabile, primo, che la sua tesi sia svolta con coerenza (il coraggio, nel suo caso, lo diamo per scontato) e, secondo, che il suo lavoro, in termini di recitazione dei singoli, movimenti delle masse, luci, insomma tecnica registica, sia di alto livello. Indiscutibile, appunto.
Altrimenti ci si limita a deplorare le mimetiche e i dettagli splatter, cioè a scambiare il dettaglio per l’insieme, e resteremo prigionieri per l’eternità di una querelle des anciens et des modernes che ha stancato. E pure molto.