L’aneddoto è abbastanza noto ma sempre gustoso. Protagonista Poulenc alla prima assoluta del mastodontico David di Milhaud, peraltro amico e “collega” nel Gruppo dei Sei. Poulenc, alla fine del primo atto, fece per andarsene e, incontrato l’autore, lo gelò con due parole: “Vous restez?”.
In effetti, capita e non di rado che di fronte a certi spettacoli indigesti o forse addirittura indigeribili si sia presi dallo stesso dilemma di Taddeo nel finale dell’Italiana in Algeri: “Restare o partire?”. Le conseguenze dell’alternativa sono magari meno drammatiche (“V’è il palo, se resto: se parto il lampione”) ma, posto che l’ascolto coatto è una forma raffinata di tortura, alle volte la tentazione di farla finita e scegliere la libertà è davvero forte.
La legge di Murphy
Nel caso, qualche consiglio. Primo: non ostentate il gesto. Dichiarazioni roboanti nel foyer con già il cappotto addosso, tipo “Fa talmente schifo che me ne vado”, sono quasi sempre controproducenti. Nella migliore delle ipotesi, sarete tacciati di esibizionismo; nella peggiore, passerà di lì proprio in quel momento il soprintendente o il direttore artistico o il regista o addirittura tutti e tre insieme, e si offenderanno a morte. Quindi se proprio volete andarvene, filatevela all’inglese, senza farvi troppo notare (alla Scala un ottimo sistema è passare dal bookshop).
Secondo: non c’è spettacolo, per quanto disastroso, che non abbia un momento d’interesse. Anche uno soltanto, anche minimo, anche solo un gesto o una nota, ma c’è. Potrebbe disgraziatamente capitare che si appalesi proprio nella parte che avete deciso di saltare. Idem se per caso dovete fare la cronaca della serata. Qui scatta una specie di legge di Murphy lirica per cui accade che la sera che ve ne andate prima è proprio quella in cui il tenore cade in buca o alla primadonna si incendia lo strascico.
Morale: forse è meglio restar sempre fino alla fine.