Quando nasce (e perché) la tradizione dell’opera all’aperto

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L’opera all’aperto. È questo il tema di oggi sollecitato dall’Aida che ho visto ieri all’Arena di Verona. Ne ho già fatto cenno nel mio precedente post a proposito del soprano americano Tamara Wilson che non voleva accondiscendere all’uso “razzista” di truccarsi di nero per rappresentare la schiava di Amneris (che tra l’altro, pur essendo la figlia del faraone, è sempre rigorosamente e curiosamente bianca).

Cantanti bianchi black-face

Ieri sera Aida era black-face come suo padre Amonasro e lo stesso vale per le schiave e schiavetti del II atto. Cantava (piuttosto bene) la spagnola Saioa Hernández. D’altronde l’allestimento era una ricostruzione/rievocazione (re-enactment) della famosa messinscena del 1913 – quella che, nell’anno di Quo vadis? di Guazzoni (e l’anno prima di Cabiria di Pastrone-d’Annunzio), rilanciò l’Aida in chiave di peplum/kolossal. Come fare a meno dei personaggi neri interpretati da cantanti bianchi black-face?

Tutto ciò è parte integrante e strutturale di quella tradizione (anche Maciste, tra l’altro uno dei modelli inconsci di Mussolini, era black-face). Non voglio tornare sul tema del razzismo, però la mia domanda (anche pensando a Edward Said) è questa: perché sono sempre bianchi Radamès, il Faraone e Amneris?

 

Aida, Ph. Ennevi

La tradizione dell’opera all’aperto

Ma torniamo all’opera all’aperto. Da musicofilo e poi melomane riminese era il mio cibo estivo. Ricordo le opere superpopolari alla Rocca Brancaleone di Ravenna e alla Corte malatestiana di Fano. Ma anche una Chovanščina in puro stile sovietico, importata da Mosca, che vidi al Castel Sismondo di Rimini con una grande emozione. Ma perché questa tradizione dell’opera all’aperto? Perché godiamo, nonostante tutto, a vedere le opere da troppo lontano e in condizioni acustiche così precarie? Qual è l’immaginario che ci sta dietro?

Mi vengono in mente tante cose diverse. Gli spettacoli al Teatro romano di Orange alla fine dell’Ottocento. Il teatro all’aperto sul Lago di Albano progettato da d’Annunzio. La inaugurazioni da una parte del Teatro greco di Siracusa e dall’altra dell’Arena di Verona.

Da una parte l’utopia di una Bayreuth mediterranea, capace di riconnetterci con la tragedia greca e le sacre rappresentazioni, e dall’altra il “teatro di massa” promosso in epoca fascista (sia il famoso 18BL messo in scena da Blasetti con le musiche di Massarani, sia le opere del Carro di Tespi lirico).

 

 

La funzione del direttore artistico

Questi due livelli, “alto” e “basso”, sono sempre intrecciati: all’Arena di Verona non si fecero solo l’Aida e la Carmen, ma si riproposero anche titoli desueti che nessun teatro eseguiva più. Per esempio Il figliuol prodigo di Ponchielli (estate 1919). Oppure opere più sperimentali come Il carillon magico, “commedia mimo-sinfonica” di Pick Mangiagalli (estate 1922).

Né mancarono altri titoli “difficili” come il Parsifal di Wagner o il Nerone di Boito. Dico questo perché la deriva nazional-popolare e turistica che oggi associamo all’Arena di Verona non è affatto inscritta nel suo DNA e neppure nella sua storia.

Come sempre le identità sono costruzioni inserite in processi che le riconfigurano continuamente. E in questi processi conta moltissimo l’azione degli uomini. Ecco perché sarebbe così importante rilanciare la figura e la funzione dei direttori artistici che il modello aziendalistico ha tristemente subordinato al sovrintendente inteso come manager.

Qui il post di Alberto Mattioli sull’Arena di Verona

Foto di copertina Ph. Ennevi

 

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