Nel bicentenario della nascita di Marius Petipa, tra celebrazioni, libri, convegni, la “ricostruzione” che mancava è arrivata in chiusura d’anno con La Bayadère dello Staatsballett Berlin, commissione del direttore entrante, Johannes Öhman, a uno specialista del genere, Alexei Ratmansky.
Il balletto era già stato ricostruito nel 2002 al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo da Sergej Vicharev, ma inviso alla vecchia generazione di ballerini e maestri affezionati alla redazione sovietica, non aveva avuto fortuna e da tempo non è più in repertorio.
Fonte principale di entrambe le ricostruzioni le famose annotazioni coreografiche, nel metodo di scrittura detto “Stepanov” dal suo inventore, conservate presso la Biblioteca di Harvard. Una collezione di una ventina di balletti di Petipa, annotati dall’allora režissëur del Mariinskij Nikolaj Sergeev, che in fuga dalla Rivoluzione d’Ottobre li portò con sé in Occidente e se ne servì per rimontare in Europa i maggiori titoli imperiali. Di queste annotazioni, la cui scrittura va appresa proprio come una lingua, è esperto e appassionato Ratmansky, che ha già riportato alla luce Il Corsaro, Paquita, La Bella addormentata, Il Lago dei cigni, Arlequinade.
La Bayadère, balletto su musica di Ludwig Minkus che debuttò nel 1877 a San Pietroburgo, è annotato nella produzione riallestita da Petipa al Teatro Mariinskij nel 1900, per gli interpreti Matil’da Kšesinskaja (la baiadera Nikja), Pavel Gerdt (il guerriero Solor), Ol’ga Preobrašenskaja (la figlia del rajah Gamzatti). È questa l’edizione coreografica riportata in scena da Ratmansky, che a differenza di Vicharev e altri ricostruttori neppure questa volta ha voluto riprodurre scene e costumi da bozzetti e figurini originali, tuttora conservati. Si è invece affidato come di consueto allo scenografo e costumista Jérôme Kaplan, che ispirato dalla produzione originale ha creato costumi raffinati e sontuosi, mentre per le scene, se convince laddove si attiene a un’estetica storica, stona quando ricorre all’estetica contemporanea: ad esempio con l’immagine fotografica dell’Himalaya nell’Atto delle Ombre e ancor più con il filmato che nel finale simula il crollo del tempio.
Come quella di Vicharev l’edizione di Ratmansky recupera il quarto e ultimo atto, con il terremoto e la caduta del tempio, prodigio all’epoca della macchineria teatrale imperiale, già nel 1920 eliminato, per ragioni tecniche ed economiche visti i tempi di ristrettezze, e mai più riapparso nelle edizioni sovietiche.
Ancora più di Vicharev che qualche concessione alle interpolazioni sovietiche l’aveva fatta, Ratmansky si attiene fedelmente al testo coreografico originale. Le annotazioni, molto ben fatte e probabilmente autografe di Aleksandr Gorskij, coprono circa il settanta per cento del balletto, da Ratmansky integrato all’occorrenza con numeri successivi o nuove composizioni nello stile dell’epoca. Eliminate tutte le aggiunte sovietiche cui siamo abituati, introdotte per lo più nella produzione di Vladimir Ponomarëv e Vachtang Čabukiani del 1941, tuttora nel repertorio del Balletto Mariinskij. Interpolazioni che – va detto – sono spesso geniali quanto i numeri di Petipa, tanto da sentirne la mancanza: il pas de deux d’amore del primo incontro tra Nikija e Solor, l’adagio di Nikija con uno schiavo, il pas de deux col velo e la variazione di Solor dell’Atto delle Ombre, la danza dell’Idolo d’oro. In compenso Ratmansky recupera altri gioielli di Petipa successivamente espunti, squisitamente poetici, romantici per reminescenza. Come la scena in cui Nikija, nel primo atto, appare alla finestra del tempio, rimirata da Solor, a suonare la veena (la chitarra indiana), o quando, ormai Ombra, appare inafferrabile alla sola vista dell’amato. Il ripristino dell’ultimo atto vede il reintegro del Pas d’action (nelle edizioni sovietiche interpolato come Grand pas nell’atto del fidanzamento), in cui il fantasma di Nikija torna a tormentare la rivale Gamzatti e il fedifrago Solor. Per Gamzatti, cui è riservata un’impervia variazione (la vediamo oggi interpolata in Don Chisciotte, danzata da Kitri-Dulcinea) spunta un anonimo cavaliere, probabile espediente per non affaticare Gerdt, all’epoca cinquantaseienne. In quest’ultimo atto altre delizie sono recuperate, come la Danse des fleurs de lotus, interpretata dalle allieve della scuola di ballo con ghirlande di fiori: un’autocitazione di Petipa del tableau Le Jardin animé del Corsaro.
Molto più presenti che nelle versioni attuali sono le danze di ispirazione indiana: certamente frutto di fantasia, ma accuratamente composte da Petipa, che in epoca di fascinazioni orientalistiche aveva probabilmente visto a Parigi il primo tour delle devadasi (le danzatrici indiane) e si era a lungo documentato sulla cultura locale attraverso letture e riviste illustrate.
Centrale resta l’Atto bianco, detto “delle Ombre”: 48 nella produzione del 1900 (ma erano state anche 64!), 32 per ragioni di odierno budget nell’allestimento della Staatsoper di Berlino. Sorprende l’entrata delle Ombre a serpentina in discesa dall’Himalaya: non lenta e cullante come la conosciamo, ma veloce e incalzante, con una diversa combinazione coreografica tra le famose arabesques. Non proprio uguale a come giunto siano a noi l’ordine dei numeri, si scopre che il famoso Pas de deux del velo tra la Nikija e Solor era in realtà una variazione della sola protagonista con il candido accessorio, che con un trucco scenico tipico dell’epoca se ne vola infine in cielo.
Nel Regno delle Ombre è evidente la ricerca di Ratmansky, tra le righe delle annotazioni, dello stile dell’epoca; questione spinosa perché – si sa – la tecnica della danza si è evoluta e i corpi dei danzatori sono cambiati. Il coreografo però vi si attiene strettamente, rinunciando all’effetto di atletici virtuosismi che oggi elettrizzano il pubblico in favore di una tecnica all’apparenza più sommessa ma non meno complessa per i ballerini, che include mezze punte negli chaînés, gambe a non più di 90 grandi di altezza, retirés bassi al polpaccio, pirouettes sur le coup de pied.
Recuperata da Ratmansky l’intera pantomima, all’epoca parte integrante del discorso coreografico, puntaggiatura poeticamente espressiva che è bello riscoprire. Una grande sfida per i ballerini del Berlin Staatsballett, che con l’imminente co-direzione della coreografa Sasha Waltz si avviano verso una programmazione equamente contemporanea e per fisionomia e scuola non costituiscono oggi un ensemble omogeneo. Un fattore che, nelle scene classiche, talvolta pregiudica quell’uniformità estetica cardine del balletto dell’Ottocento.
Deve aver molto lavorato sullo stile e sul carattere del suo personaggio la Prima ballerina russa Polina Semionova, che ritrae una Nikija dalle linee plastiche e dal temperamento patetico. Alejandro Virelles, Primo ballerino cubano nuovo acquisto della compagnia, ha souplesse nei salti e perfezione dei giri, e se non può sfoggiare la sua tecnica da fuoriclasse in un ruolo in gran parte mimico, appare intenso anche nelle pose statiche dell’epoca. Mentre Yolanda Correa, altra nuova Prima ballerina di scuola cubana, non impressiona granché nel ruolo di Gamzatti nonostante la sua tecnica brillante.
Dopo il successo della prima rappresentazione che le altre recite si spera confermeranno, resta da vedere se sia la compagnia che il pubblico prenderanno a cuore e vorranno conservare una produzione di immenso valore storico sì, ma che ancora una volta rivela la fantasia, la brillantezza, la poesia di Marius Petipa.
Recite: 9, 10 novembre; 15, 26, 28 dicembre 2018. 18 gennaio; 2, 9 febbraio 2019.
Foto Ph. Yan Revazov