Oggi voglio parlarvi di post-opera e “new music theatre” perché il 20 ottobre ho visto (finalmente) al Teatro Studio di Milano la famosa Hamletmaschine di Heiner Müller (1977) nella ancora più celebre regia di Bob Wilson (1986) ripresa dopo più di trent’anni.
L’impatto operistico di questo archetipo del teatro post-drammatico teorizzato da Hans Thies Lehmann è tanto più evidente in quanto è stato tra l’altro messo in musica da Wolfgang Rihm. D’altronde anche altri testi di Müller sono diventati importanti opere: Medeamaterial di Pascal Dusapin e Quartett di Luca Francesconi (che verrà riproposto alla Scala la prossima stagione), per esempio. Ma è la stessa “macchina” spettacolare di Müller e Wilson a essere congegnata musicalmente, per quanto secondo i meccanismi fini a se stessi della drammaturgia post-drammatica. La prima parola viene recitata dopo quasi mezz’ora. Prima, solo un “montaggio” di movimenti suoni immagini luci musica smorfie –il tutto ritmato da schiocchi secchi e penetranti di un batacchio che interviene come lo hyōshigi del kabuki giapponese.
Musicalmente si sente, dalle casse disposte anche intorno allo lo spazio riservato al pubblico, la melodia, continuamente ripetuta e “alienata” da se stessa, suonata con un dito solo su una tastiera, della canzone Is that all there is? che cantava Peggy Lee negli anni intorno al 1968. Da lontano giungono sound effects tipo latrati di cani, mitragliatrici e altri suoni disforici di questo tipo. Tale soundscape allucinato fa parte di una struttura che si scoprirà ben presto girare a vuoto su se stessa come un orologio o un carillon.
Ogni volta ricomincia (con varianti) spostata di novanta gradi a dritta. “Io ero Amleto”… Le poche parole, che rinviano/alludono a Shakespeare solo indirettamente, amplificate con microfoni ad archetto color carne che si vedono sui volti dei giovani e bravissimi attori dell’Accademia d’arte drammatica “Silvio d’Amico”, galleggiano come relitti su un mare di movimenti suoni immagini smorfie luci musica… Ma al terzo spostamento a destra della struttura-meccanismo che insieme produce e impedisce la rappresentazione succede qualcosa di imprevisto: la proiezione di un video nel quale, come in una mise en abyme, vediamo proiettati i personaggi che abbiamo appena visto dal vivo. Solo che sono loro ma non sono più loro perché il video è quello del 1986 e oggi siamo nel 2018. Il video stesso non è più lui, sembra un VHS comprato al mercatino dell’usato.
Il tutto accompagnato, con un’intensità struggente, da un Lied di Schubert cantato da Jessye Norman: Das Zwerg (il nano). L’accompagnamento musicale è come un meccanismo che non lascia scampo alla melodia. Ricorda Der Tod und das Mädchen. Racconta la storia tragica e truculenta di una regina accompagnata per mare dal suo nano. Quest’ultimo la strangola e si lascia poi trasportare dalla corrente di un mare nero e piatto sul quale galleggia come un relitto in attesa del naufragio… In questo contesto, in attesa che la struttura-meccanismo ricominci a girare, l’emozione dirompente fino alle lacrime della musica di Schubert diventa il culmine dello straniamento.
Immagini Ph. Lucie Jansch