In scena: Rossini, Verdi e Cherubini tra Pesaro e Milano

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Lo so: il mio blog langue. Me ne scuso coi lettori, ma non ho esperienze recenti che possano arricchire l’idea che sta alla base di esso: l’opera come neutro plurale. Quest’estate ho lavorato col regista Filippo Crivelli al Rossini Opera Festival come drammaturgo di uno spettacolo dedicato ai “péchés de vieillesse” e allo “stile tardo” dell’autore della Petite messe solennelle.

A Pesaro ho visto le opere rossiniane che facevano parte del cartellone di quest’anno. A un mese di distanza posso dire che la formula (filologia per il testo musicale + regia moderna per lo spettacolo), che da una quarantina d’anni sta alla base del venerando e blasonato festival, andrebbe riconfigurata e riaggiornata. Tornato a Milano, ho visto l’Alì Babà di Cherubini e la prova generale dell’Ernani di Verdi alla Scala. Del primo c’è ben poco da dire, se non che riproporre la traduzione ritmica dell’edizione del 1963 non mi è sembrata una scelta felice. Molto promettente la voce di Riccardo Della Sciucca (Nadir). L’opera di Cherubini è secondo me assai poco interessante (sono d’accordo con Berlioz) e mi sembra assurdo considerarla come il Falstaff del compositore italo-francese (un’idea balzana che ogni tanto viene riproposta).

Dell’Ernani cosa posso raccontarvi? Il mio non è un blog di critica musicale, bensì di cultura operistica e di drammaturgia musicale. Dunque più orientato ai valori interpretativi che a quelli esecutivi. Ora, la chiave di lettura proposta da regista e scenografo (Bechtolf e Crouch), benché realizzata con grande maestria, è fondata su un impianto metateatrale che vuol prendere le distanze dagli eccessi melodrammatici di un’opera che ormai, sembrerebbe, non si può più prendere troppo sul serio. Eppure la musica dell’Ernani ci commuove ancora, eccome! Forse, secondo Bechtolf-Crouch, essa ci emoziona nonostante i parossismi verbali e situazionali che la regia deve appunto storicizzare ovvero “virgolettare”. Ma io credo che abbia ragione Proust quando dice che ogni “benché” è un “perché” travestito. Il melodramma melodrammatico di Verdi ci commuove non benché ma perché parossistico.

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