L’Attila di Verdi: uno di quei casi in cui ci si identifica con l’aggressore

in L’Opera oltre l'Opera
  1. Home
  2. L’Opera oltre l'Opera
  3. L’Attila di Verdi: uno di quei casi in cui ci si identifica con l’aggressore

Ieri ho commentato per radio (Radio 3) la fatidica diretta scaligera in cui si officiava cum magna pompa un’opera del “primo” Verdi spesso additata come l’“apogeo del cabalettismo” (secondo una definizione giornalistica del 1847): Attila.

A differenza di Massimo Mila, che la includeva tra le opere irrimediabilmente “brutte” di Verdi (in ciò d’accordo con alcuni radioascoltatori odierni), io la considero un’opera bellissima. Ho cercato di spiegare per radio il perché. La mia chiave di lettura prende in contropiede il luogo comune critico dell’Attila come opera “risorgimentale” e pone al centro del cimento interpretativo un meccanismo psicanalitico spiegato a suo tempo da Anna Freud: “l’identificazione con l’aggressore”.

Sì, perché il re degli Unni, l’aggressore, sarà anche un barbaro sanguinario ma è l’unico personaggio col quale ti puoi identificare. La sua superiorità morale emerge subito nel Prologo quando Ezio, “l’ultimo romano”, propone ad Attila un pactum sceleris ripugnante di inciucio trasformistico e tradimento. Il re invasore rimane incredulo e sgomento di fronte a tale bassezza: “Dove l’eroe più valido / è traditor, spergiuro, / ivi perduto è il popolo, / e l’aer stesso impuro”. Come non essere d’accordo con lui?

Ma anche colei che più di tutti rappresenta il “Santo di patria, indefinito amor”, Odabella, è un personaggio ambiguo che paragonandosi a Giuditta sembra più che altro ossessionata dalla sete di vendetta. Il suo archetipo, passando per la Hildegunde di Werner, è la Crimilde del Nibelungenlied. “Tu quoque Odabella”, dice alla fine Attila evocando il tradimento di Cesare, dopo che l’isterica “donna italica” lo ha colpito, infierendo su un uomo già annientato.

Dove vanno a finire in questo contesto i valori risorgimentali che pure la musica esprime con grande enfasi in brani come l’entrata di Odabella (davvero straordinaria) o l’esaltata cabaletta col coro di Foresto (“Cara patria, già madre e reina”)? Questa è la domanda che secondo me sta al centro dell’opera e che ben difficilmente potrà evitare chi volesse accingersi a interpretarla (anche teatralmente e musicalmente).

D’altronde l’Attila di Verdi è una costruzione drammaturgico-musicale complessa e contraddittoria. Qualcuno potrebbe anche aggiungere, e non a torto, che è un’opera confusa. Ma è confusa come lo sono i nostri sogni, soprattutto quelli (come in questo caso) collettivi. Cercare di interpretarli è l’unica cosa che ci rimane da fare ed è una cosa sempre più urgente. Andate alla Scala a vedere Attila.

“Playing Gamlet”: Fabrizio Gifuni in Concerto per Amleto al Piccolo Teatro
48 ore per passare dall’operetta di Straus a Offenbach: a Berlino si può

Potrebbe interessarti anche

Menu