Berlino. Primi giorni dell’anno 2019. Mentre nei teatri delle altre capitali europee puoi assistere solo allo “Schiaccianoci” o al “Lago dei cigni”, a Berlino puoi vederti uno dopo l’altro spettacoli fondamentali come l’operetta di Oscar Straus “Die Perlen der Cleopatra” messa in scena da Barrie Kosky (Komische Oper) e “Les contes d’Hoffmann” di Offenbach nell’ormai classico allestimento di Laurent Pelly (Deutsche Oper).
Io li ho visti entrambi il 4 e 5 gennaio. Tra l’altro la concomitanza mi obbliga a tornare su uno dei temi ricorrenti di questa rubrica: la riscoperta e il rilancio in chiave “sperimentale” dell’operetta. Questo fenomeno così importante e caratterizzante della scena contemporanea ha avuto infatti in Laurent Pelly (prima) e Barrie Kosky (poi) due punti di riferimento imprescindibili.
Quando vidi “La belle Hélène” diretta da Minkowski e allestita da Pelly a Parigi nel 2001 rimasi di stucco nel constatare quanto lo spirito caustico e il ritmo indiavolato dell’operetta potessero essere in sintonia con i modi del teatro di regia contemporaneo e dell’historically informed performance (h.i.p.). Quella dell’operetta è stata d’altronde la più grande rivoluzione musicale e teatrale della seconda metà dell’Ottocento (insieme con Wagner e allo stesso livello di Wagner). In Francia, dopo Pelly, ci sono state le iniziative del Palazzetto Bru Zane a riconfigurare e riattualizzare il fenomeno: il titolo simbolo di questa nuova ondata del revival operettistico è stato “Les chevaliers de la table ronde” di Hervé, un compositore schiacciato dalla celebrità di Offenbach, ma indispensabile per capire la nascita dell’operetta (e della stessa “offenbachiade”, per usare il termine di Kracauer).
L’allestimento di Pierre-André Weitz del 2015 è stato il detonatore di questa new wave dell’operetta che ha introdotto un elemento ulteriore e secondo me cruciale: la riscoperta di titoli dimenticati. Riproporre “Les chevaliers de la table ronde” (un’operetta del tutto “rimossa” dalla coscienza estetica contemporanea) in un modo così moderno e senza alcun atteggiamento nostalgico (senza alcun “birignao” da operetta) è stato un salutare shock culturale. La ricerca musicologica e la sperimentazione artistica si sono incontrate esaltandosi a vicenda.
Alla Komische Oper di Berlino, Barrie Kosky ha portato avanti un discorso molto simile e devo dire con straordinari risultati. Personalmente lo ritengo il regista più importante degli ultimi anni. La sua riscoperta di Oscar Straus è importante (in avanti) quanto lo è stata quella di Hervé (all’indietro).
Non mi sembra d’altra parte un caso che nella sua Cleopatra egli citi il bianco e nero dell’allestimento di Weitz del 2015. Ma Kosky è andato ancora oltre: il suo uso disinvolto e quasi sfacciato della amplificazione lo porta a creare un ponte assai significativo tra l’operetta e il musical. Non solo. Così egli può integrare in uno stesso spazio drammatico e acustico cantanti di provenienza operistica e un’attrice-cantante dalla vocalità trasformistica da cabaret come Dagmar Manzel. Quest’ultima è stata il perno drammaturgico intorno al quale è stato costruito tutto lo spettacolo, in ciò riprendendo il ruolo che aveva avuto Fritzi Massary nelle premières dell’operetta a Vienna (1923) e a Berlino (1924).
La partitura è stata completamente riarrangiata con la stessa liberatoria disinvoltura con cui sono state amplificate le voci (per Kosky l’estetica h.i.p. ha fatto il suo tempo). Quella che è stata soprattutto valorizzata e enfatizzata è la componente jazz presente nella musica: un’operazione che spinge Straus (e l’operetta) verso il sound Broadway/Off-Broadway. Con quali conseguenze? È ancora presto per dirlo, ma il lavoro di Kosky non è solo promettente: è una sfida teatrale e di politica culturale alla quale tutti noi siamo chiamati.