Si parla di Chopin sempre in relazione al pianoforte e ai suoi interpreti di riferimento. Poco o non abbastanza ci si riferisce a Chopin come grande architetto di suoni e di forme, i cui procedimenti compositivi parlano al nostro tempo molto di più se decontestualizzati dalla musica ottocentesca. Una miniera per le classi di analisi e per i compositori contemporanei.
Proviamo quindi a considerare Chopin senza il suo strumento di elezione, il pianoforte, e senza i grandi interpreti che hanno reso la sua musica inscindibile dal “divismo” del concertismo. Fermiamoci al testo, alle sue partiture, agli aspetti compositivi.
Analizzare certe pagine di Chopin significa compiere un viaggio nel visionario, nel quale spesso è difficile rifarsi agli schemi, alle forme e ai processi armonici tradizionali. Decifrare le sue partiture comporta una certa elasticità nell’uso degli strumenti dell’analisi classica, anche a costo di arrivare, con libertà e senso critico, a più interpretazioni analitiche di uno stesso passaggio.
Prendiamo ad esempio il Preludio op. 28 n.9 in mi maggiore, dodici misure senza un vero tema in senso tradizionale, una scrittura accordale, e la voce acuta delle armonie che segue un ritmo puntato. Immaginiamo due linee che procedono in parallelo, divergono gradualmente, ne seguiamo il percorso per un po’ ma le perdiamo di vista, riuscendo a vedere il punto lontanissimo dove esse, seguendo un itinerario che non possiamo rintracciare, si ricongiungono. Così, nel Preludio di Chopin, da mi maggiore, nell’ambito di pochissime misure, ci si allontana gradualmente verso armonie sempre più lontane (per i tecnici, si fa largo uso di accordi con cosiddetta “doppia funzione”) rendendo assolutamente imprevedibile qualunque possibile sviluppo formale. Il brano ritorna a mi maggiore seguendo un altro “tragitto”, potendo, forse, ricominciare. Dodici misure e una materia semplicissima che Chopin utilizza con un rigore e una sapienza inafferrabile.