Spesso c’è più “opera” nel teatro di ricerca che nell’opera: Fedeli d’Amore

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Sulla separazione dei mondi mi sono già più volte espresso. Il pubblico melomane non capisce il teatro di ricerca, e viceversa. Ma a me sembra che, spesso, ci sia molta più “opera” nel teatro di ricerca che nell’opera.

Ne ho parlato negli ultimi due post dedicati, rispettivamente, al Mangiafoco di Roberto Latini e al Macbettu di Alessandro Serra. Ad essi oggi aggiungo un altro spettacolo che ho visto qualche giorno fa all’Elfo Puccini: Fedeli d’Amore di Marco Martinelli.

L’opera nel teatro di ricerca

Alla dimensione “operistica” del Teatro della Albe ho dedicato una video-intervista a cui rimando il lettore. Certo è che anche questo monodramma interpretato da Ermanna Montanari conferma tutto quello che dicevamo sulla vocazione musicale non solo della sua ars dicendi e arte scenica, ma anche della drammaturgia di Martinelli.

Perfino a livello sintattico, nel montaggio dei sette quadri ovvero “pezzi chiusi” di cui si compone lo spettacolo, è plateale il richiamo alle “solite forme” operistiche. Non credo che Marco si offenderà se considero il suo testo un ottimo “libretto” al cui dispositivo alludono costrutti allitteranti fatti per essere “cantati” da Ermanna più che fruiti letterariamente: “postribolo e patibolo”, “più forte della morte”, ecc.

Oppure sintagmi ripetuti a mo’ di ritornello: “i e fat a crosa” (in un dialetto romagnolo che mi sa che eravamo in pochi a capire nella sala). Oppure altre ripetizioni musicali proprio come nell’opera: “Vita oscura smarrì, vita oscura smarrì, vita oscura smarrì”.

Anche i versi corti con molte rime e assonanze rimandano alla poesia per musica. Per non parlare dello sdoppiamento tra la voce di Ermanna e la tromba di Simone Marzocchi, con i memorabili “duetti” che ne sono derivati.

Fedeli d’Amore, la musica acusmatica

Il contenuto drammatico di questa performance è un’agonia – non solo l’agonia di Dante nel 1321, ma la nostra agonia. E allora la musica acusmatica di Luigi Ceccarelli, con le sue ondate violente, alludeva a qualcosa di catastrofico, così come la tromba dal vivo e ben visibile in scena di Marzocchi diventava una delle trombe dell’Apocalisse.

Speriamo che a vedere Fedeli d’amore ci vada qualche direttore artistico (ma ne esistono ancora?) di qualche Ente autonomo o Teatro di tradizione sovvenzionato: più che far fare a Marco Martinelli la regia di un’opera di repertorio (il che è già avvenuto), sarebbe importante espandere, sviluppare il potenziale operistico del suo teatro introducendovi altre voci (“diverse voci fanno dolci note”), un coro e un ensemble strumentale…

Anche la mia, come quella di Fedeli d’Amore, “È una fine che non ha una fine”.

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