Più che una recensione, il “Don Carlo” che ha inaugurato la stagione della Fenice sollecita una riflessione. Premetto che, anche al netto della prodezza di essere riusciti a riaprire un teatro che una settima prima della “prima” era allagato, è stata un’eccellente produzione. Magnifica direzione di Chung, il Verdi migliore che oggi si possa sentire, ottima la compagnia e bellissimo lo spettacolo di Carsen. È un DC nudo e nero, mortifero e spettrale, tutto giocato e risolto sulla recitazione, sui personaggi, insomma sul teatro, e con un autodafé agghiacciante: prima vengono bruciati i libri, poi giustiziati con un colpo alla nuca quelli che lì leggevano.
Il Don Carlo secondo Carsen
Però proprio questo spettacolo ha riaperto tutto il dibattito sulle malefatte dei registi, magari a un livello un po’ più alto delle invettive modello “dove andremo a finire, signora mia” dei leoni da tastiera, ma insomma non senza polemiche. Il punto è che Carsen “ribalta” un personaggio. Il marchese e poi duca di Posa, grande di Spagna, smette di essere un idealista romantico per diventare un cinico politico. Chiede a Carlo le carte compromettenti non per scagionarlo, ma per consegnarle al Grande Inquisitore con il quale è in combutta. Nel finale, gli sgherri della Chiesa eliminano non solo Carlo, ma anche Filippo ormai compromesso e incoronano proprio Posa con una tiara simbolo del cesaropapismo più assoluto e reazionario.
La tesi è ardita ma, ça va sans dire, realizzata benissimo, perché non si è Carsen per niente. E certo, in un’opera dal finale aperto e anche un po’ ambiguo come DC rende palese la vittoria dell’Inquisitore e ribadisce il pessimismo shakespeariano di Verdi sulla storia e sull’Uomo. Non è una scelta illegittima, tanto più che, lo ripeto, è prima preparata e poi svolta dalla regia con classe superiore. Ma è anche una scelta giusta? Io direi di no. Non per una fantomatica “fedeltà” all’Autore, ma proprio perché è l’idealismo di Posa, e la sua sconfitta, a ribadire la disillusione verdiana.
La generosità viene travolta dal cinismo, la storia rigetta l’utopia e fa trionfare, sempre, la forza. Si può essere formalmente infedeli a Verdi per essergli fedeli nella sostanza, come abbiamo visto molte volte nelle regie “moderne”. Ma non si può essere infedeli nella forma per approdare all’infedeltà nella sostanza.