Era il secolo scorso, diciamo fra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta. Oltre a più capelli, avevamo anche molte più curiosità, specie per quel mondo della prassi esecutiva originale (“filologia”, in breve, anche se la filologia è tutt’altra cosa) che iniziava a conquistare la discografia.
L’emozione di ascoltare l’ultimo Oiseau-Lyre o Archiv o Teldec era enorme: per chi scrive, lo choc fu l’Idomeneo di Harnoncourt, con il senno di poi anche abbastanza discutibile (e in ogni caso surclassato – e di molto – da quello meraviglioserrimo di Jacobs: come dire, la rivoluzione divora i suoi figli…).
I controtenori
Curiosità nella curiosità, i controtenori. Certo, i più fini conoscevano i dischi del padre nobile della categoria, Alfred Deller, e i finissimi quelli del nonno bravo, Russell Oberlin. Però di fronte a queste voci letteralmente inaudite si restava basiti e, alla fine, conquistati.
Certo, c’erano le scomuniche di molta parte della critica italiana, e ricordo ancora la sera memorabile, correva l’anno 1985, in cui il sipario del Comunale di Modena, un posto dove Mozart era considerato un minore per cantanti svociati, si aprì sul Rinaldo delle meraviglie di Pizzi e, in particolare, su James Bowman che da sotto un enorme casco piumato attaccò “Delle nostre fatiche siam prossimi alla meta, o gran Rinaldo!” con voce bianca.
Si vide, come nei fumetti, un enorme punto interrogativo formarsi ad altezza loggione. Erano dei pionieri, lui, Esswood, Chance, Jacobs, come tutti i pionieri pieni di difetti e di limiti, più importanti forse per quel che promettevano che per quel che erano in grado di mantenere. Ma ci affascinarono subito.
Il barocco alla Scala
Poi passarono gli anni, il barocco conquistò il mondo e i controtenori con lui. Oggi capita che la Scala ne scritturi, per il suo bellissimo Giulio Cesare, addirittura quattro. Risultato: stupore e sorpresa perché nel Tempio si fa quel che è normale fare nel resto del mondo civilizzato, con appena venti o trent’anni di ritardo, irritazione di quei quattro o cinque bagonghi che invece vorrebbero tornare indietro almeno di cinquanta, e il pubblico vero che si spella le mani come fa ovunque, dimostrando così che all’opera, a differenza di quel che spesso si pensa, non è vero che siamo tutti più tonti dei nostri nonni. Siamo, semplicemente, diversi.
Immagine di copertina: Bejun Mehta e Danielle de Niese, Giulio Cesare, Teatro alla Scala, Ph. Brescia e Amisano
A questo link il post di Emilio Sala sulla normalizzazione della early music