Intervista a Hofesh Shechter regista di Orphée et Euridice alla Scala

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Se nel mondo dell’opera saranno una scoperta le coreografie e la co-regia di Hofesh Shechter per Orphée et Euridice in scena al Teatro alla Scala (24 febbraio-17 marzo), nell’ambiente della danza contemporanea il coreografo istraeliano di residenza inglese è nome di punta da diverse stagioni. Inconfondibile il suo stile coreografico marziale, legato alle potenti partiture musicali che egli stesso compone: un modo di lavorare molto diverso dal creare le danze per un’opera, tanto più barocca. Conferma, l’artista, brillante nel pensiero, sensibile nell’animo, incontrato alla vigilia del debutto scaligero.

«È molto diverso, sì. Componendo io stesso la musica creo l’atmosfera, lo spazio, l’emotività della pièce. La musica costituisce essa stessa l’idea. Lavoro parallelamente coreografia e musica, che si influenzano vicendevolmente: inizio col portare in studio abbozzi musicali provando a comporvi una coreografia, poi a casa continuo a lavorare sulla musica, cambio, aggiungo…»

E con la partitura di Gluck?

«Paradossalmente lavorare su Gluck mi ha dato più libertà, perché il concetto era già fissato. Come in altre opere altrui mi è capitato, ho capito che posso essere molto più creativo,  veloce, reattivo. È stato un processo più lineare, non potendo tornare indietro e cambiare la musica. Certo c’è una collisione forte tra la musica barocca e la mia coreografia, che è radicalmente contemporanea, ma è stato per me un piacere vedere come la musica barocca faccia uscire diversamente il mio movimento, il mio vocabolario, mostrandone altri colori, altra energia. Dirò di più: di solito per me è molto difficile godermi il processo creativo, che qui invece è venuto piacevole, gioioso, fluente».

In scena quanti sono i danzatori?

«La mia compagnia, Hofesh Shechter Company, c’è tutta, ovvero 10 danzatori, con l’aggiunta dell’ensembe junior, Shechter II, 12 danzatori tra i 18 e i 25 anni, per un totale di 22 elementi.  Tutti i danzatori interpreti originali della produzione che debuttò alla Royal Opera House di Londra nel 2015 tornano per la ripresa alla Scala».

Come sceglie i suoi danzatori, così riconoscibili per lo stile di movimento?

«Ovviamente faccio audizioni: cerco danzatori molto musicali, con un particolare tipo di movimento. Ma primo di tutto viene la persona, il suo mondo interiore. No, non è sulla bellezza, sulla fisicità, sul modo di presentarsi di un aspirante danzatore che mi baso, ma sulla sua capacità di farmi sentire qualcosa mentre lo guardo danzare. È così che scelgo: per un elemento molto umano alla fine».

Da dove arrivano?

«Ah, da tantissimi backgrouds e da tutto il mondo: Taiwan, Olanda, Germania, Francia, Corea, Albania… nessuno dall’Italia».

Ma in Italia ha lavorato di recente, riallestendo il suo Wolf per Aterballetto.

«Sì, è stato molto bello lavorare con loro, era la mia prima volta con una compagnia italiana. Quando coreografo per un nuovo ensemble, trovando danzatori con esperienze diverse, cerco un modo di incontrarci nel mezzo e poi di portarli nel mio mondo, per vedere come vi lavorano».

La realtà contemporanea come influenza le sue creazioni?

«Tutto trova sbocco nel mio lavoro, anche se la mia danza non racconta una storia precisa. Sono influenzato da quanto accade fuori di me e si ripercuote su di me. Non sono un politico, né un sociologo, solo un uomo che vive la propria vita, ma sono molto interessato ai comportamenti sociali, a come le masse condizionino l’individuo. In fondo funziona così anche in Orphée et Euridice, un’opera che si può connettere ai tempi contemporanei: immagino infatti i danzatori come una comunità molto forte, che agisce in modo cerimoniale intorno al protagonista. Mi interessa far pensare le persone, spingerle a porsi domande, perché io non do risposte».

L’ha influenzata l’essere cresciuto in un paese come Israele?

«Evidentemente sì: forse proprio nell’ossessione di cercare di capire le strutture sociali. Chi ne decide i processi, perché la gente segue una direzione piuttosto che un’altra, come si generano battaglie e conflitti. Chi cresce in Israele è circondato da un immenso ambiente politico, con grandi pressioni. Me ne interrogo da quand’ero molto giovane: ma quel mondo io probabilmente non lo capisco».

Nelle compagnie israeliane di danza contemporanea trova tratti comuni? Torna in Israele per le sue creazioni?

«Ci siamo influenzati l’un l’altro, a partire da Ohad Naharin che con la sua Batsheva Dance Company ha portato un grande cambiamento nella danza, in Israele e nel mondo. È capitato solo una volta che tornassi per riallestire una mia coreografia, ma no, non torno, vivo molto bene a Londra, lavorando con compagnie di tutto il mondo».

Progetti con la sua compagnia, anche in Italia?

«Con la Hofesh Shechter Company il prossimo ottobre sarò a Roma con Grand finale, la mia ultima creazione, e nel mese di marzo la Shechter II è in tour in Italia (al Teatro Ariosto di Reggio Emilia il 17; al Teatro Sociale di Trento il 20; al Teatro Grande di Brescia il 23, n.d.r.)».

E un’altra opera?

«Forse… ma devo trovare quella giusta. Questa era perfetta per la coreografia».

 

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