Di ritorno da un convegno dedicato a Luca Ronconi, organizzato dal Centro Teatrale Santacristina nel “buen retiro” umbro del grande regista, ho fatto sosta a Città di Castello per visitare i due spazi espositivi colà consacrati a un artista sommo: Alberto Burri.
Quest’ultimo ha allestito una sola opera: il Tristan und Isolde di Wagner, uno spettacolo che andò in scena alla Fenice di Venezia all’inizio del 1981. Fu la mia prima volta col Tristano e ancora conservo l’emozione che provai in quella occasione. Rivedere oggi, nel museo di Palazzo Albizzini, le maquettes dei tre atti dell’opera e il “nero” sipario combusto, in perfetto “stile Burri”, mi ha fortemente impressionato. La “ferita” di Tristano nel terzo atto diventa un intero fondale di tela di sacco (forse si tratta dello stesso materiale dello “scandaloso” sacco del Rigoletto), un segno-simbolo che rinvia alla “drammaturgia del trauma” che anima tutto l’immaginario dell’artista.
Nel secondo spazio espositivo, quello degli Ex-seccatoi del tabacco, si trova appeso un altro fondale di tela di sacco realizzato da Burri per uno spettacolo teatrale: L’avventura d’un povero cristiano di Ignazio Silone, rappresentato nell’agosto del 1969 con le musiche di scena di Mario Zafred. A Milano è stato da poco ricostruito il Teatro Continuo, una struttura essenziale bifronte che nel Parco Sempione inquadra da una parte la Torre del Filarete e dall’altra l’Arco della Pace. D’altronde anche il famoso “grande cretto” di Gibellina è un’opera di “land art”, certo, ma pure di teatro, sulla cui superficie non a caso è stata creata recentemente un’azione coreografica nella quale i danzatori sono stati accompagnati dalle musiche del gruppo siciliano di indie-rock Mashrooms: The Dance of the Living Stones.
Allo stesso modo non è un caso che il regista Francesco Torrigiani abbia allestito La cavalleria rusticana di Mascagni (Savona, Teatro dell’Opera Giocosa, luglio 2017) proprio ispirandosi al “grande cretto” di Burri.