Questo è il mio trentesimo post, il primo a uscire nel nuovo sito di Amadeus. Colgo l’occasione per fare il punto a beneficio del lettore. In questa rubrica pubblico delle brevi riflessioni sull’opera e sul teatro musicale che nascono da un’esperienza vissuta come spettatore. Però non si tratta di recensioni stricto sensu. Il dato esperienziale è un’occasione per riflettere sui rapporti tra musica e teatro in una prospettiva che potrei dire di “extended opera”. Ho commentato in questa chiave spettacoli di varia natura visti in numerose città: non solo Milano, dove vivo, ma anche Roma, Torino, Bologna, Venezia, Ravenna, Parma, Parigi, Berlino, Stoccarda, New York, ecc. Quello che mi interessa è (far) discutere di opera in modo da rilanciarla in diverse direzioni.
Il tema di riflessione di oggi è il rapporto tra opera e arte contemporanea. L’occasione è la ripresa al Teatro San Carlo di Napoli della Valchiria del 2005, regia di Federico Tiezzi, scenografia di uno dei più famosi rappresentanti dell’arte concettuale italiana: Giulio Paolini. Del rapporto tra opera e arte contemporanea abbiamo già parlato a proposito di un Tristano e Isotta con le scene di Alberto Burri che vidi a Venezia nel 1981 quando ero ancora studente. Ma si tratta naturalmente di un tema di straordinaria ricchezza e complessità.
Per capire quanto teatro ci sia nella pittura, basta leggere critici come Roberto Longhi o Michael Fried. Per il contrario, si può pensare alla maestria pittorica dei grandi scenografi del passato, da Alessandro Sanquirico a Lila de Nobili. Diverso però è il caso dell’arte concettuale. Come può l’algida astrazione di un Paolini incarnarsi drammaturgicamente? E qui bisogna tirare in ballo il ruolo del regista: Federico Tiezzi. Egli ha infatti trasformato l’installazione di Paolini, che avrebbe potuto campeggiare sul palcoscenico come una sorta di feticcio o di totem, in un congegno simbolico ad altissima densità e pertinenza drammaturgiche.
L’installazione è una imponente struttura metallica che sembra lo scheletro del cubo di Rubik e che funge da scena fissa lungo tutto il corso dello spettacolo (un po’ come il famoso cubo del Macbeth nell’allestimento di Graham Vick del 1997). La sua funzione cambia nel corso dei tre atti: da gabbia in cui vive Sieglinde prigioniera di Hunding, l’installazione diventa una sorta di presidio volto a proteggere il corpo di Brünnhilde alla fine dell’opera. Ma questo vale a un livello meramente narrativo. A livello simbolico c’è molto di più. E lo si evince soprattutto nel secondo atto. Precisamente quando Fricka, tutrice della tradizione e dell’ordine costituito, smaschera il “trucco” di Wotan, che vorrebbe considerare altro da sé ciò che ha lui stesso creato. Ma la volontà del dio è intrascendibile (“non esiste l’Altro dell’Altro”, direbbe Lacan).
Annientato, Wotan non può (più) difendere colui che ama. Distrutta, Brünnhilde deve portare l’annuncio di morte a Siegmund. Qui Tiezzi ha fatto scendere un siparietto “cosmico” che rappresenta dei pianeti somiglianti a dei bulbi oculari – come un cielo inquietante infinito onniveggente. Ma a un certo punto il fondale diventa leggermente trasparente e dietro traluce ancora – sinistra – la struttura metallica che simboleggia l’Ananke, la Cosa, il Meccanismo a cui non si può sfuggire.
Come ha mostrato Biagio Scuderi in un suo articolo sulla collaborazione tra Tiezzi e Paolini, tanto l’installazione quanto il siparietto facevano già parte del repertorio iconografico dell’artista genovese. Ma in questa messinscena essi vengono completamente risemantizzati e per così dire transustanziati senza perdere la loro specificità artistica.
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Info: teatrosancarlo.it