Una settimana fa ho visto l’Idomeneo di Mozart alla Scala. Cosa mi è rimasto di quella esperienza? A parte il suono dell’orchestra vitaminica ma un po’ cursoria di Fasolis, l’ottima compagnia di canto (soprattutto l’Elettra di Federica Lombardi) e il senso di sproporzione tra la colossale testa di toro che campeggiava in scena e il banale uso drammaturgico che ne è stato fatto, direi ben poco.
A proposito di allestimenti a scena fissa (così diffusi nel teatro di regia contemporaneo), trovo interessante rilevare che un’installazione “astratta” come quella della Valchiria di Paolini-Tiezzi (ne ho parlato nel mio precedente post) può essere drammaturgicamente molto più pregnante e attiva di un totem iperfigurativo come quello usato da Hartmann nel suo spettacolo. C’è però una cosa che mi ha colpito e di cui vorrei parlarvi. La Voce dell’Aldilà che interviene alla fine dell’opera. Un’irruzione “sublime” che nel terrore degli astanti corrisponde a un’intromissione del soprannaturale – un soprannaturale ben diverso dal merveilleux dei tempi della tragédie lyrique. Se prendete l’opera da cui il libretto dell’Idomeneo deriva (l’Idoménée di Campra), l’esame comparativo di questo punto di scena è rivelatore.
Nella tragédie lyrique di Campra, l’intervento della voce divina (Némésis) interrompe i festeggiamenti durante i quali Idomeneo stava lasciando il trono al figlio Idamante. Nel “dramma per musica” di Mozart, invece, la Voce interviene per impedire che il padre sacrifichi il figlio in obbedienza a una barbara Legge imposta agli uomini dalla crudeltà degli dei. Un ribaltamento totale. Che, come direbbe Francesco Orlando (mi riferisco al suo libro postumo Il soprannaturale letterario), “presuppone l’Illuminismo”. Cioè la critica del passato oscurantista e la laicizzazione dell’aldiquà. Ora, è significativo e per certi versi paradossale che sia proprio in questo contesto post-illuministico che la voce dell’aldilà acquisti quell’alterità che la rende terribile/sublime.
Per quanto forse un po’ prevedibile, il gesto registico di Hartmann è stato in questo caso efficace. La Voce ha fatto la sua irruzione dal palco reale (il luogo dell’auctoritas nel mondo della realtà) interpretata da un cantante vestito in abito da sera moderno. Anche i tre tromboni che l’accompagnano (simbolo sonoro dell’horror sacer), erano collocati nello stesso luogo. Così essa assume un carattere ad un tempo traumatico e metateatrale. Come le voci del Commendatore e dell’Ombra di Nino, anche la voce della Voce non può che essere quella di un basso sacramentale dall’eloquio salmodiante.
Invece, in Campra, Némésis cantava in chiave di tenore e con un recitativo del tutto privo di connotazioni liturgiche. Interessantissima l’associazione che Mozart fa (in una sua famosa lettera al padre del 29 nov. 1780) con l’Ombra del padre di Amleto. Egli motiva con queste parole la sua scelta di accorciare l’episodio della Voce: “Ditemi, non trovate che il discorso della voce sotterranea sia troppo lungo? Pensateci bene. Immaginatevi la scena: la voce deve essere terribile […]. E come può fare un effetto così forte se il discorso è troppo lungo […]? Se in Amleto il discorso dello spettro non fosse così lungo, l’effetto prodotto non potrebbe essere che migliore”.