L’ange de Nisida di Donizetti suggerisce una riflessione sulla comicità

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Giovedì sera sono stato a Bergamo per assistere alla prima rappresentazione mondiale dell’Ange de Nisida di Donizetti. Un titolo arcinoto ai melomani come opera abortita e rinata in una nuova forma: La favorite.

Il compositore avrebbe dovuto farla rappresentare nel 1840 al Théâtre de la Renaissance in cui aveva già fatto furore la Lucie de Lammermoor (versione francese della Lucia), ma il teatro parigino fallì e l’opera venne riconcepita e riconfigurata come grand-opéra: il nuovo titolo, La favorite, andò in scena appunto all’Opéra di Parigi alla fine del 1840.

Il bello è che anche L’ange de Nisida aveva riciclato parti di un altro progetto incompiuto, Adelaide, un’opera alla quale Donizetti aveva lavorato verso il 1834. Come concepire l’unità dell’opera in un contesto instabile e metamorfico come questo? Che rapporto dobbiamo istituire tra La favorite e L’ange de Nisida, ora che anche quest’ultima opera, grazie al lavoro della musicologa Candida Mantica, è tornata in vita?

La comicità nell’Ange de Nisida

La questione è affascinante ma non è il tema della mia riflessione di oggi. Ciò che mi interessa sottoporre alla vostra attenzione riguarda una variante macroscopica tra le due opere: la comicità, presente a dosi massicce nella seconda e assente nella prima. Rebecca Harris-Warrick, la curatrice dell’edizione critica della Favorite, ha sottolineato l’influenza nell’Ange di Nisida del dramma di Victor Hugo Marion Delorme che, dopo essere stato applaudito a mo’ di mélodrame popolare al Teatro della Porte Saint-Martin nel 1831, era stato appunto ripreso al Théâtre-Français mentre Donizetti era a Parigi. Nel novembre 1839 Théophile Gautier aveva elogiato il lavoro di Hugo proprio in quanto mélange di generi diversi: “c’est un roman, une comédie, un drame, un poème où toutes les cordes de la lyre vibrent tour à tour”.

Nell’Ange de Nisida c’è infatti un personaggio comico, Don Gaspar (ciambellano del re) che è una sorta di basso buffo anomalo, cinico e inquietante, abituato a navigare nelle acque torbide del potere. Possiamo considerarlo già un personaggio “grottesco” al modo di Victor Hugo e dunque “preverdiano”? È un antesignano di Rigoletto? Come dobbiamo leggerlo? In Marion Delorme c’è un personaggio al quale potrebbe essere associato: l’Angély, il buffone del re (già a livello di “catena dei significanti”: Angély=Ange).

Ma il buffone di Hugo è lugubre. Quando si presenta nel secondo atto, uno dei cortigiani se ne esce con questo alessandrino: “Je ne m’étonne plus que le roi soit si triste”. L’associazione è suggestiva e pertinente (pensiamo anche al fatto che Donizetti fu uno dei primi compositori a intonare un’opera tratta da un dramma di Hugo: Lucrezia Borgia), ma porta con sé uno schema interpretativo troppo “teleologico” per i miei gusti. Basta ascoltare l’aria di Don Gaspar del primo atto (“Ma puissance n’est pas mince”) per rendersi conto di quanto ci si trovi ancora dentro la sfera del basso buffo, per quanto ridisegnato “al negativo”.

D’altronde questo cambiamento di segno della comicità è un fatto che va considerato in un contesto più ampio. Nel mio libro sul mélodrame (intitolato L’opera senza canto) ho cercato di spiegarlo incrociando appunto tre diversi generi teatrali: il mélodrame popolare (appunto), il dramma romantico di Hugo (ma anche di Dumas padre, Vigny, ecc.) e l’opera lirica sia francese sia italiana.

La comicità tutto sommato rassicurante del “niais-peuple”, che regnava nel mélodrame e nell’opera semiseria, si trasforma man mano nell’inquietante “bouffon grotesque” di Victor Hugo e dei romantici. Un ruolo fondamentale in questo contesto venne giocato dal modo cinico e beffardo con cui il grande attore Frédérick Lemaître recitò un personaggio che divenne subito un’icona della “modernità”: Robert Macaire.

Enrico di Borgogna

Tutto questo vale per il côté parigino. Però sul versante italiano, è possibile un altro raffronto all’indietro le cui conseguenze, se volessimo prenderle sul serio, cambierebbero non poco i termini della questione. L’anno scorso infatti, sempre al Festival Donizetti, ho visto un’opera che non conoscevo e che mi ha fortemente incuriosito e appassionato: Enrico di Borgnogna. Agisce in essa, infatti, il buffone di corte Gilberto che, nonostante la sua vicinanza anche musicale (siamo nel 1818) a Rossini, contiene già qualcosa della futura maschera beffarda dei romantici.

O sono io che applico a tale caso una tipica “soluzione retroattiva” attivando il circuito della profezia che si autoinvera? In ogni caso ringrazio il Festival Donizetti che ci offre ancora l’occasione di assistere a nuove riscoperte il cui piacere davvero speciale incomincia a essere da troppi operatori considerato un lusso superfluo per melomani d’élite.

Uscire dal cosiddetto repertorio è uno dei modi essenziali per ossigenare un sistema così spesso retrivo e tradizionalista come quello dell’opera (soprattutto italiana e soprattutto in Italia).

Immagini Ph. Rota

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