Il Regietheater come pratica interpretativa: I puritani “al negativo”

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Sono stato a Stoccarda, lo scorso 15 luglio, per vedere/ascoltare I puritani di Bellini messi in scena al Teatro dell’Opera secondo i principi del Regietheater. Ci sono stato anche per compensare il mio noto “francocentrismo”. È stata un’esperienza bellissima. Quando dici “Regietheater” e pensi a Salisburgo, subito ti prepari alle solite (e inutili) polemiche sullo strapotere narcisistico dei registi che sacrificherebbero, sull’altare del loro “Konzept”, il sacrosanto primato della musica ecc. ecc. (anzi: bla bla bla).

Ma se vai a Stoccarda, ti accorgi che il Regietheater è una pratica INTERPRETATIVA svolta con rigore e umiltà, condivisa e apprezzata da un pubblico attento, sobrio, perfino un po’ serioso. Nel caldo di luglio, nel giorno della finale dei mondiali di calcio, alla presentazione dello spettacolo, condotta dal Dramaturg (altra figura fondamentale del sistema teatrale tedesco), c’era una folla abbastanza impressionante. I due registi, Jossi Wieler e Sergio Morabito, con la scenografa e costumista Anna Viebrock, hanno riletto l’opera proponendone una interpretazione “al negativo”. Il “colore militare” che Bellini ha associato al mondo dei puritani, e che il direttore d’orchestra Manlio Benzi ha potenziato/drammatizzato con una forza davvero rimarchevole, diventa un’atmosfera cupa incombente oppressiva repressiva che schiaccia e man mano annichilisce ogni possibilità di “beltà e valor”.

Il lieto fine è in realtà ironicamente terrificante. Dopo il celeberrimo concertato (durante il quale il prode tenore René Barbera ha eseguito quel grido di disperazione che è il famoso Fa sopracuto), si annuncia la vittoria definitiva dei puritani e la conseguente amnistia per i prigionieri politici. Anche Arturo – simbolo della libertà dell’arte, della fantasia, dell’amore – si integra nella comunità dei vincitori e diventa un “fondamentalista” puritano. Lo happy ending è solo apparente e nasconde il sopravvento di un sistema repressivo e disumano.

Quella di Morbito e Wieler non è la ma una delle interpretazioni possibili che I puritani sollecitano a chi voglia prendersi la briga di interpretarli ovvero di riattualizzarli. Manlio Benzi ci ha creduto offrendoci una direzione d’orchestra decisamente drammatizzante e (provocatoriamente?) antibelcantistica. Il suo clima di concitazione continua, così spigoloso e ansiogeno, mi ha emozionato e coinvolto. Qualche volta, bisogna ammetterlo, l’orchestra ha coperto la voce (piccola) della pur brava Elvira (Ana Durlovski).

Per esempio nel duetto del primo atto, complice anche il vocione del basso Adam Palka (uno zio Giorgio davvero interessante). Voglio citare anche la bella prova di Enrichetta (Diana Haller), che la riapertura del taglio del terzetto “Se il destino a te m’invola” ha ulteriormente valorizzato. Ma il personaggio forse più complesso e difficile da incarnare scenicamente (oltre che vocalmente) è stato l’instabile e quasi “bipolare” Riccardo (Gezim Mishketa) che ho trovato molto convincente. Perfetti anche i due personaggi “minori”, ma importantissimi, e cioè il padre di Elvira e capo puritano Lord Valton (Roland Bracht) e il fanatico orrendo settario sessuofobo Sir Bruno (Heinz Görig).

Ogni particolare è stato rigorosamente integrato nel discorso registico dai responsabili della messinscena che hanno creato uno spettacolo davvero coerente e austero (per esempio: nessun effetto di luce di tipo suggestivo e soprattutto, cosa rara oggi, nessuna proiezione). L’indomani dello spettacolo ho anche incontrato il regista Sergio Morabito e il direttore d’orchestra Manlio Benzi che mi hanno rilasciato un’intervista a cui rimando il lettore.

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