Die tote Stadt secondo Graham Vick: un allestimento che vale la stagione

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Anche se Korngold considerò per tutta la vita Das Wunder der Heliane (1927) come la più riuscita delle sue opere, non si può negare che oggi sia piuttosto Die tote Stadt (1920) ad apparirci come quella più interessante e vitale. Anzi, come una delle più interessanti e vitali in quella frenetica e affascinante ricerca dell’opera “moderna” (non necessariamente “d’avanguardia”) che caratterizza l’epoca di Puccini, Debussy e R. Strauss.

Tratta dal famoso romanzo simbolista di Georges Rodenbach (Bruges-la-morte, 1892), attraverso la mediazione di un adattamento teatrale di un certo successo, l’opera amplifica l’elemento onirico già venato di chiari sottintesi psicoanalitici. Infatti, mentre nel romanzo e nel dramma il feticista e quasi psicotico protagonista – un vedovo che vive solo del ricordo della moglie morta (Marie) di cui ha conservato vari oggetti e perfino una treccia bionda che tiene religiosamente sotto una teca di cristallo – alla fine strangola l’amante (Mariette) con la stessa treccia della defunta, nell’opera tale assassinio si compie solo mentalmente, in una scena che scopriremo essersi svolta davanti a noi come una sorta di psicodramma rappresentato “in soggettiva”.

Sbaglierebbe chi volesse vedere in questa variante solo un espediente edulcorante: la possibilità di dare un più largo spazio all’elemento allucinatorio mi sembra la vera ragione drammaturgica di questa scelta. Anche per questo non condivido le scelte registiche come quella di Inga Levant, che nella sua interpretazione (finita anche in dvd) cambia il dénouement di Korngold recuperando in qualche modo il finale tragico del romanzo e del dramma. Comunque sia, la rappresentazione del delirio è nell’opera così importante che viene anticipata come conclusione anche del primo quadro, quando l’immagine dipinta della morta si anima e si trasforma in una visione (leggiamo nel libretto) «causata dalla coscienza e dai nervi di Paul»: la capacità di Korngold di fantasmizzare attraverso la musica tale visione ha del prodigioso. Fin dal lamento cromatico discendente con attacco giambico della voce misteriosa della morta («Paul… Paul…»), contrappuntato dalla linea ascendente del basso che incomincia invece con un trocheo, l’orchestra evoca un’atmosfera piena di ambiguità che ci risucchia nell’inconscio del protagonista.

Un altro elemento interessantissimo nell’opera di Korngold è il ruolo drammaturgicamente attivo che viene affidato alla città di Bruges, la “città morta”. Già nel finale del primo quadro, quando Paul dice «Bist es in dieser toten Stadt, du tönst in ihren Glocken» [tu sei in questa città morta, tu risuoni nelle sue campane], fa capolino (intonato dagli oboi) un tema che, con le sue quarte discendenti e quinte ascendenti, rinvia alle campane di Bruges i cui rintocchi troveranno ampio spazio all’inizio del quadro successivo.

Ma si tratta sempre di campane filtrate attraverso la coscienza (turbata se non patologica) di Paul. Guarda caso, il motto «Brügge und ich, wir sind eins» [Bruges ed io siamo una sola cosa] caratterizza il protagonista dell’opera fin dalla prima scena del primo quadro. Questa drammaturgia della città-personaggio (sottolineata anche dal titolo) segue più le distorsioni psicologiche dell’espressionismo che le suggestioni impressionistico-descrittive, tipo il modo in cui è reso il soundscape di Parigi nella Louise di Gustave Charpentier.

Il «wie ein Traum», un’indicazione che troviamo spesso nel secondo e terzo quadro, comporta sempre una connotazione ossessiva, quasi da incubo, che ci ricorda atmosfere come quella del Gabinetto del dottor Caligari (tra l’altro dello stesso anno dell’opera, 1920). D’altronde la drammaturgia della città-personaggio quasi ci costringe, mutatis mutandis, a citare anche Metropolis (1927) la cui musica originale, bellissima, venne composta da Huppertz col chiaro proposito di fare della città una dramatis persona.

Ma è pure la polarizzazione schizoide, tutta interna al tema del “doppio”, della figura femminile Angelo/Vampiro (vedi Marie/Marietta nell’opera e Maria/Falsa Maria nel film), che rende l’associazione tutt’altro che peregrina. Quando, alla fine della penultima scena, Mariette balla con la treccia della morta, non ci viene in mente solo la danza “isterica” di Salome e di Elektra, ma anche quella, ancor più erotica e distruttiva, della Falsa Maria.

Tutto ciò che precede l’ho scritto per “il giornale della musica” una decina di anni fa. Capirete che ora, vedendo alla Scala lo straordinario allestimento di Graham Vick, sono rimasto folgorato. Nella scena del delirio che chiude il primo quadro, il regista inglese visualizza infatti il fantasma della morta attraverso l’immagine della Falsa Maria di Fritz Lang che – interpretata da una miracolosa Asmik Grigorian – ci offre la sua danza sfrenata e orgiastica. Un cortocircuito metadiscorsivo che non dimenticherò più.

A seguire tre brevi estratti dalla produzione, firmata da Graham Vick e Alan Gilbert, in scena fino al 17 giugno al Teatro alla Scala di Milano.

 

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