“La musica di Silvia Colasanti prende, arriva al pubblico. Ed emoziona, noi per primi che la suoniamo”. Queste le parole con cui Salvatore Accardo si esprime sulla compositrice romana. Silvia Colasanti inaugurerà il prossimo 28 giugno l’edizione 2019 del Festival di Spoleto con Proserpine, opera tratta dal dramma di Mary Shelley, per la regia di Giorgio Ferrara. Opera in due atti per 7 solisti e orchestra da camera. «La scelta della Trilogia è frutto di un lavoro di squadra, del confronto tra me, Giorgio e René guidati dal medesimo obiettivo ma capaci di contribuire ognuno attraverso il proprio specifico linguaggio», spiega Colasanti. Considerata la compositrice italiana di musica classica più nota all’estero, è indubbiamente la prima donna del nostro Paese ad aver superato il monopolio maschile nel settore. Ha collaborato con nomi di spicco del calibro di Yuri Bashmet, David Geringas, Massimo Quarta, Jacques Zoon, Enrico Bronzi e il Quartetto di Cremona. Come lei stessa definirebbe in poche parole la sua musica? «Teatrale, ricca di dettagli e orientata a coniugare la ricerca sul linguaggio con la comunicazione di sentimenti ed emozioni». La incontriamo per chiederle di Proserpine, di questa rilettura del mito e della sua vita in musica.
La formazione al Conservatorio Santa Cecilia di Roma con Luciano Pelosi e Gian Paolo Chiti, poi il perfezionamento con Fabio Vacchi, Wolfgang Rihm, Pascal Dusapin e Azio Corghi. Ma, guardando agli albori della sua carriera, da cosa nasce la scelta di dedicarsi alla composizione?
Dal desiderio di riuscire a raccontare delle storie con i suoni. Sicuramente tutti gli incontri che lei cita hanno contribuito a rafforzare questo intento, e a fornirmi gli “strumenti” per farlo.
Una professione, la sua, oggi ancora identificata come prettamente o culturalmente maschile. Cosa significa essere donna compositrice nel mondo elitario e talvolta conservatore in cui opera?
Significa avere la possibilità concreta di dimostrare che i meriti vanno al di là del genere.
Esiste a suo avviso un “sentire” musicale più femminile e come questo si evidenzia in genere nelle pagine da lei composte?
Esiste sicuramente un “sentire” femminile, perché “parità” di genere non vuol dire cancellare le differenze, anzi, esaltarle. Tuttavia non saprei dirle se dal solo ascolto della mia musica si possa risalire al fatto che sono una donna! In tutti noi coesistono tratti maschili e femminili, e nell’arte sicuramente emergono entrambi. Mi piace pensare che la mia musica non venga associata tanto al mio genere, quanto a ciò che intende esprimere.
Proserpine è il secondo lavoro della trilogia sul Mito concepita in occasione della collaborazione con il Festival di Spoleto e iniziata lo scorso anno con Minotauro. Come nasce l’interesse per il Mito?
L’idea di Proserpine è maturata insieme a Giorgio Ferrara e René de Ceccatty è iniziata lo scorso anno. Si tratta di un tema atemporale e attualissimo pur in un mondo veloce e privo di uno spazio di sedimentazione delle memorie come quello in cui viviamo. Si parla degli dei e di come questi realizzano la propria umanità, di storie che sfidano il tempo. Per questo abbiamo scelto il Mito nella rilettura di grandi autori.
Siamo rimaste, lo scorso anno, alla presentazione del Minotauro, quale è poi stata la risposta del pubblico?
È stata molto positiva e per questo ringrazierei ancora Giorgio Ferrara che ha sposato l’idea di inaugurare con un’opera contemporanea. Un’opera rivolta ad un pubblico eterogeneo attraverso un linguaggio “del presente”. Per questo secondo titolo, invece, abbiamo pensato a una lettura dell’opera in chiave femminile (a differenza di Minotauro, figura forte e spiccatamente maschile).
Ecco, quest’anno, il prossimo 28 giugno, si inaugura con Proserpine, testo tratto dal dramma di Mary Shelley e regia di Giorgio Ferrara: come mai la scelta è caduta su questo personaggio in particolare?
Lei, Mary Shelley, è stata un’importante figura femminile della letteratura romantica inglese. Proprio come personaggi femminili molto forti sono la protagonista Proserpina e sua madre Cerere. Le donne in scena sono ben sette. Si tratta di un Mito potente letto e riletto da Mary Shelley sulla base del mito latino di Ovidio. Si toccano temi forti come la maternità, tema alla Shelley particolarmente caro a motivo della perdita di una figlia e della morte di parto della sua stessa madre. Infatti Cerere, donna e madre, sfida gli dei per riavere con sé sua figlia. A questo si aggiunge l’ombra dell’accettazione, vissuta non solo come elemento negativo, ma propulsore. L’accettazione del fato da parte di Proserpina che al ritorno dagli Inferi acquista la consapevolezza che nulla la potrà davvero separare da sua madre. La consapevolezza che starà benissimo per sei mesi e che entrambe vivranno gli altri sei nel sogno di potersi rivedere. E, ancora, la consapevolezza del chiaroscuro, con le proprie vitali opposizioni, che esiste, va accettato e vissuto con maturità.
Proserpina è stata anche, nel 2009, un’opera di Wolfgang Rihm su testo di Goethe del 1777. Come mai la sua scelta è caduta invece proprio sul testo di Mary Shelley, autrice romantica inglese certo più nota per il suo Frankenstein?
La lettura di Goethe è tutt’altra e la struttura dell’opera di Rihm molto diversa. E non lo dico per prendere le distanze. Mary Shelley è certamente più nota come autrice di Frankenstein o come moglie di Percey Shelley. Non esiste traduzione della sua opera, che probabilmente è sempre stata sottovalutata nonostante il suo grande valore drammaturgico. Insomma, questa lettura del mito di Proserpina, a motivo delle sue caratteristiche, era quella di nostro interesse.
Proserpine. Un’opera definita “al femminile”, ci racconti…
La definirei “femminile” non solo perché realizzata da un organico di donne, ma per via dell’idea molto forte di maternità che in essa è espressa attraverso Cerere, per declinazione, e Proserpina protagonista principale femminile. Un’opera in cui si esprime appieno la solidarietà femminile.
“Silvia Colasanti è la Lina Wertmuller della musica contemporanea italiana”, scrive di lei Cappelli sul Corriere della Sera. Cosa pensa di questo “ardito” parallelo?
Credo semplicemente che Valerio intendesse evidenziare il carattere particolarmente passionale e fortemente comunicativo della mia opera…
Nella storia della musica, “contemporaneo” è stato spesso sinonimo di “incompreso” se non a posteriori. Pensa che questo accada in qualche misura ancora oggi?
Non sempre lo è stato. Oggi come allora lo è, ma non sempre. Esistono lavori di grande valore, alcuni di maggiore immediatezza e altri compresi solamente dagli addetti ai lavori. Che probabilmente arriveranno ad essere apprezzati più tardi a causa della densità del loro linguaggio.
E, per concludere, aggiorniamo la cartella clinica: quale, a suo avviso, lo stato di salute attuale della musica contemporanea nel nostro Paese?
La musica contemporanea, e noi compositori di musica contemporanea, lavoriamo in tante direzioni diverse, siamo portatori di tante differenti estetiche e di tante bellezze. Molte istituzioni come Spoleto si pronunciano per incoraggiare ed incrementare l’attenzione verso il repertorio contemporaneo e questa rappresenta per noi una vera fortuna.
Immagine di copertina Ph. Barbara Rigon