Spoleto: intervista a Silvia Colasanti che inaugura con “Minotauro”

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“La musica di Silvia Colasanti prende, arriva al pubblico. Ed emoziona, noi per primi che la suoniamo”. Queste le parole con cui Salvatore Accardo si esprime sulla compositrice romana. Oggi le sue composizioni godono di grande considerazione e vengono eseguite nelle principali istituzioni musicali internazionali tra cui, solo per citarne alcune, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma, la Philharmonie e il Théâtre des Champs-Élysées a Parigi, il Konzerthaus di Berlino, la Biennale Musica di Venezia, il Kuhmon Kamarimusiikki a Kuhmo, Finlandia, La Società del Quartetto a Milano, la Royal Scottish Academy of Music and Drama a Glasgow, il Center for New Music di San Francisco.

Considerata la compositrice italiana di musica classica più nota all’estero, è indubbiamente la prima donna del nostro Paese ad aver superato il monopolio maschile nel settore. Ha collaborato con nomi di spicco del calibro di Yuri Bashmet, David Geringas, Massimo Quarta, Jacques Zoon, Enrico Bronzi e il Quartetto di Cremona. All’attività di compositrice, le sue opere sono pubblicate da Casa Ricordi, unisce quella di docente in Conservatorio, a Benevento. Nel 2013, viene nominata Cavaliere della Repubblica dal Presidente Giorgio Napolitano e nel 2017 il Presidente Sergio Mattarella le conferisce la nomina di Ufficiale della Repubblica.

Come lei stessa definirebbe in poche parole la sua musica? «Teatrale, ricca di dettagli e orientata a coniugare la ricerca sul linguaggio con la comunicazione di sentimenti ed emozioni». La incontriamo per chiederle di sé e della sua musica in occasione della sua prevista nuova collaborazione con il Festival di Spoleto, che inaugurerà il prossimo 29 giugno 2018 con “Minotauro”, opera tratta dall’omonimo racconto di Friedrich Dürrenmatt, su libretto di René De Ceccatty e Giorgio Ferrara e regia di Giorgio Ferrara.

La formazione al Conservatorio Santa Cecilia di Roma con Luciano Pelosi e Gian Paolo Chiti, poi il perfezionamento con Fabio Vacchi, Wolfgang Rihm, Pascal Dusapin e Azio Corghi. Ma, guardando agli albori della sua carriera, da cosa nasce la scelta di dedicarsi alla composizione?

«Dal desiderio di riuscire a raccontare delle storie con i suoni. Sicuramente tutti gli incontri che lei cita hanno contribuito a rafforzare questo intento, e a fornirmi gli “strumenti” per farlo».

Una professione, la sua, oggi ancora identificata come prettamente o culturalmente maschile. Cosa significa essere donna compositrice nel mondo elitario e talvolta conservatore in cui opera?

«Significa avere la possibilità concreta di dimostrare che i meriti vanno al di là del genere.

Esiste a suo avviso un “sentire” musicale più femminile e come questo si evidenzia in genere nelle pagine da lei composte?

«Esiste sicuramente un “sentire” femminile, perché “parità” di genere non vuol dire cancellare le differenze, anzi, esaltarle. Tuttavia non saprei dirle se dal solo ascolto della mia musica si possa risalire al fatto che sono una donna! In tutti noi coesistono tratti maschili e femminili, e nell’arte sicuramente emergono entrambi. Mi piace pensare che la mia musica non venga associata tanto al mio genere, quanto a ciò che intende esprimere».

La sua collaborazione con il Festival di Spoleto comincia nel 2016; il 29 giugno 2018 inaugurerà con il Minotauro, opera tratta dall’omonimo racconto di Friedrich Dürrenmatt, su libretto di René De Ceccatty e Giorgio Ferrara e regia di Giorgio Ferrara: qualche anticipazione?

«L’opera nasce dal desiderio di mettere in scena il racconto di Dürrenmatt che ribalta il mito del Minotauro: non un carnefice, ma una vittima, un ingenuo condannato a vivere nel corpo di un essere mostruoso, a cui si contrappongono gli uomini, i veri mostri. È una partitura ricca di contrasti, che raccontano la doppia anima del Minotauro e la sua confusione: spesso ad aggressivi ostinati ritmici si alternano momenti immobili e rarefatti. Molto forte, sia nel testo originale, sia nella nostra rilettura, è la presenza della danza, come tratto fortemente istintivo del protagonista, il quale attraversa nel corso dell’opera un vero e proprio percorso di “crescita”. Una presa di consapevolezza della propria solitudine e dell’inganno di cui sono capaci gli uomini».

Spesso ancora oggi si lamenta nel nostro Paese una scarsa attenzione alla musica contemporanea: qual è la sua opinione in merito?

«In un Paese come il nostro, che ha visto nascere l’opera, e che ci ha consegnato un ricchissimo patrimonio culturale, credo si possa fare molto di più, sia per la conoscenza del passato, sia per la produzione di nuovi lavori che possano arricchire questo patrimonio e parlare di temi attuali con la lingua del presente. Per questo è coraggioso che un Festival di lunga tradizione possa inaugurare con un’opera contemporanea».

La composizione di musica sinfonica o d’opera: quale sente più nelle sue corde e perché?

«È molto presente in tutti i miei lavori, sinfonici e operistici, l’idea della narrazione, dei contrasti, di una direzionalità molto forte, in una parola: del “teatro”. Cerco sempre di creare con i suoni delle vere e proprie “drammaturgie”, anche in lavori orchestrali o cameristici».

E, infine, nonostante la giovane età sono state tante ad oggi le collaborazioni con rilevanti personaggi del panorama musicale internazionale: chi ha in modo particolare lasciato un segno significativo nel suo percorso di crescita professionale?

«Sono debitrice a così tante figure, che sarebbe difficile elencarle tutte! E ogni volta che lavoro ad un nuovo pezzo, dall’incontro con l’interprete/librettista/regista, nasce uno spunto di riflessione, un arricchimento. È l’aspetto più bello del mio lavoro, il confronto che ti porta a rivedere anche cose che davi per certe. Per l’opera e il teatro l’incontro con Pier’Alli è stato molto stimolante, tra gli interpreti voglio ricordare almeno Yuri Bashmet, David Geringas, Salvatore Accardo e Vladimir Mendelssohn».

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