Tutto si rimette in discussione al festival Eclat di Stoccarda, i formati dei concerti, gli spazi, i media, le icone artistiche, il pianoforte, il pubblico. Anche il nostro sistema economico. Proseguendo nella sua direzione di rassegna sempre più aperta agli aspetti performativi della composizione, presenta lavori (ben 37 prime mondiali) che nascono in ambienti interdisciplinari, che mirano a creare una nuova “lingua” musicale, che si mescolano non solo con altre arti, ma con altri mestieri e forme di artigianato, che portano sempre con sé sempre un esperimento, un desiderio, un’utopia.
Nelle diverse sale del Theaterhaus di Stoccarda è stato presentato un progetto intitolato Happiness Machine, spettacolo di tre ore, affidato al Klangforum Wien, dove dieci compositrici hanno lavorato a stretto contatto con altrettante registe di animazione, sul concetto di «economia del bene comune» (Gemeinwohl-Ökonomie) elaborato da Christian Felber (nato a Salisburgo nel 1972): questa eccentrica figura di economista, che ha studiato anche psicologia e filologia romanza, che è stato anche danzatore, e che ha avviato un progetto di Banca democratica, ha sviluppato questo concetto, partendo da un semplice interrogativo: «Quanto siamo felici nell’attuale sistema economico?».
Ne sono venute dieci riflessioni, musicali e cinematiche, che mescolavano video, animazioni, musica dal vivo, sonorizzazioni, elettronica, testimonianze degli stessi membri dell’ensemble austriaco che raccontavano storie di consumo, di avidità, di solidarietà, di ribellione al sistema. In questa variopinta carrellata spiccava il lavoro di Carola Bauckholt, Die Flunder (con il video di Elizabeth Hobbs), dove fluide immagini ad acquarello (che raccontavano la favola dei Grimm del pescatore e di sua moglie) scorrevano su una parte musicale frammentaria, percussiva, dai timbri acidi; l’episodio molto “noisy” di Lickalike di Eva Reiter (video di Rebecca Blöcher); la scena danzante, onirica di di Pantopos di Misato Mochizuki, che accompagnava un gioco di immagini deformate (video Eni Brandner); Music Box della cinese Ying Wang, una musica dall’evidenza plastica, dominata dai fiati, su immagini circensi, di acrobati, magnificamente stilizzate nell’animazione di Joanna Kożuch; l’originale mix di suoni di macchine da cucire (live) con rumori di fabbrica registrati in Bloomers della svedese Malin Bång (il video di Samantha Moore riprendeva figurini d’epoca).
A Stoccarda non mancano mai, perché giocano in casa, i Neue Vocalsolisten: impareggiabili quando cantano (soprattutto quando cantano insieme), piuttosto impacciati invece nei lavori di tipo performativo. Ne sono stati un’ulteriore conferma sia terra nera di Saskia Bladt, sia Up Close and Personal di Kaj Duncan David, «operetta centrifugata» concepita come una sorta di “one man show” (il controtenore Daniel Gloger), che esplorava i confini tra spettacolo e vita privata.
Più interessanti i concerti-istallazione. Ad esempio quello di Clara Iannotta intitolato skull ark, upturned with no mast (2018), già presentato alla Biennale di Monaco, un labirinto fatto di tubi, neon e cavi metallici, all’interno del quale erano intrappolate quattro performer che producevano i suoni con archetti, spazzole, trasduttori a contatto, piccoli altoparlanti, megafoni, generando una trama insieme raffinata e bruitistica, che evocava la condizione dell’isolamento, in un mondo ermetico e sigillato.
O At close quarters di Philipp Krebs, performance che durava un’intera giornata e ruotava intorno a un vecchio pianoforte verticale. Il compositore, in abito elegante e papillon, si trasformava in falegname, restauratore, operaio, agiva sul pianoforte, lo smontava, ne piallava le superfici, le scartavetrava, lo stuccava, stendeva sul legno una strato di impregnante, lo sverniciava: tutte operazioni fatte con una grande dovizia di arnesi, amplificate, manipolate elettroacusticamente dalla pianista (Neus Estarellas, anche lei in abito da concerto) che invece agiva su una consolle, mixando tutti quei suoni. Il compositore diventava così un lavoratore controllato a distanza dall’interprete.
In questa perfomance si poteva vedere uno sviluppo, estremo e radicale, del cageano pianoforte preparato – analogamente al celebre concerto per pianoforte di Steen Andersen, che distruggeva un pianoforte, facendolo schiantare a terra da una gru, per poi estrarne suoni deformati.
A Eclat un altro compositore danese, Christian Winther Christensen, ha usato il pianoforte in maniera davvero inconsueta nel nuovo Concerto per pianoforte (pianista Rei Nakamura). Figura emergente e dirompente nel panorama contemporaneo, anche se ancora poco conosciuto in Italia, allievo di Bent Sørensen e Hans Abrahamsen al Conservatorio Reale Danese, e poi di Frédéric Durieux al Conservatorio di Parigi, Christensen bypassa i modelli dell’avanguardia. Semmai si ricollega alla storia della musica attraverso citazioni e imitazioni, commentando, creando una distanza ironica con la tradizione. In questo caso ha “preparato” elettronicamente il pianoforte, usando citazioni dalla grande letteratura dei concerti solistici (soprattutto quello di Grieg, il Quarto di Beethoven, il Concerto i sol maggiore di Ravel); impiegando un pianista “fantasma” dietro le quinte, che suonava una tastiera midi per controllare il materiale preregistrato; amplificando tutti i rumori prodotti dal contatto delle dita del pianista sui tasti, attraverso una grande quantità di microfoni: il pianoforte funzionava così come un «mostro narrativo del passato» capace di mescolare grandi accordi consonanti con suoni secchi, arpeggi legnosi, cigolii, con i suoni percussivi dei pedali, con i glissati “spazzolati” sulla superficie dei tasti, con alcune musichette festose. Fino a un epilogo dominato da un estenuante decelerando, con accordi che rallentavano, dando un tratto afasico al discorso musicale.
Nello stesso concerto, diretto dall’ottimo Brad Lubman, sul podio dell’Orchestra della SWR, si è ascoltato anche Sandwriting II del lituano Vykintas Baltakas. Un lavoro in qualche modo opposto a quello di Christensen, per la scrittura orchestrale piuttosto tradizionale, ma seducente, capace di creare sottili processi di trasformazione del suono, ricca di gesti e di colori, con sferzate nette, piccole frasi quasi “parlanti”, e un bellissimo gioco di incastri tra blocchi strumentali. Senza manipolare gli strumenti, Baltakas riusciva a creare una nuova sintassi sinfonica, lontana sia dall’eredità espressionista, sia da quella francese (impressionisti, Messaien, spettralismo), sia dal sinfonismo minimal americano.
La stessa orchestra, insieme all’SWR Vokalensemble ha eseguito anche un nuovo lavoro dello sloveno Vito Žuraj, un grande affresco sinfonico-corale che si ispirava alla vita dell’alchimista Johann Friedrich Böttger (con parole del poeta Aleš Šteger): l’idea delle «trasformazioni magiche» in letteratura e musica si traduceva in un lavoro materico e gestuale, fatto di blocchi corali, urla ritmate, masse pizzicate, frusciate o glissate degli archi, interventi dei legni e dei corni che suonavano solo con ance e bocchini. Lo stesso coro ha anche eseguito un nuovo, notevole lavoro di Michael Pelzel per coro a 24 voci, Hagzusa und Galsterei, su un testo di Dominik Riedo, ispirato a incantesimi e magie medievali: un gioco di lente masse vocali che si alternavano a brevi gesti nervosi, si trasformavano in un fitto gioco contrappuntistico, e alla fine in un lungo pedale punteggiato da tamtam, come in un rituale magico.
Tra i pezzi cameristici ascoltati a Eclat, spiccava il nuovo lavoro di Bernhard Gander: Eleven Evil Elves per quattro sax (Raschèr Saxophone Quartet), una spirale di frasi veloci e omoritmiche, con suoni acidi, frasi urlate, colori scuri di Death e Black Metal, tutto dominato da un ritmo di 11/8 (che il compositore considera il misterioso ritmo di elfi diabolici). Mondi sonori assai diversi emergevano nel concerto delll’Ensemble Ascolta: dai giochi erotici di Sex doll deluxe di Mikel Urquiza, dove il suono degli ottoni si mescolava con quello ritmato di paperelle e pallonicini; alle trame ritmiche e esplosive di 5 gentlemen di Niklas Seidl; a quelle rarefatte di ma di Eiko Tsukamoto; dai gesti violenti e i suoni distorti di FAIL di Milica Djordjevic; al gusto arcaico di ANIMA di Hristina Šušak, giovanissima compositrice serba, molto promettente. Il duo Karin Hellqvist (violino) e Heloisa Amaral (pianoforte) ha presentato un programma scandinavo: Plans for future violin and keyboard pieces di Øyvind Torvund, pezzo utopico, pieno di citazioni, era legato a una serie di vignette proiettate come concept ironici, e si sondava tra suoni di natura, gocciolamenti, canti di uccelli, suoni di clavicembalo, e un improvviso temporale, con lampi sul pianoforte; SAFRAN della svedese Lisa Streich evocava i diversi gradi di dolcezza dello zafferano, sfruttando i delicati effetti meccanici di alcune eliche collocate nella cordiera del pianoforte, con l’effetto di un brusio, di un carillon lontano; Silent Disco di Kristine Tjøgersen era fatto di trame secche, soffocate, come sottovetro; l’incantatorio 10 Svendsen Romances di Lars Petter Hagen intrecciava semplici melodie in una trama sospesa, avvolgente incantatoria, piena di echi lontani.
L’evento clou è stato però Schubert Lounge di Eivind Buene. Il compositore norvegese, che è cresciuto con la musica pop, amante allo stesso tempo dei cantautori degli anni ’70 e dei Lieder di Franz Schubert, che lui considera alla stessa stregua di un “cantautore” della sua epoca: per questo ha spesso organizzato nella sua casa di Oslo delle moderne “schubertiadi” con amici musicisti, intonando Lieder di Schubert insieme al baritono Halvor Mellen. A partire da quelle esperienze, e attratto dalle frizioni tra linguaggi musicali diversi e diversi sistemi di pensiero, ha creato questa Schubert Lounge nella quale si mescolavano dei Lieder schubertiani cantati da Buene (cantava in inglese, con microfono e voce non impostata, accompagnandosi alla tastiera con il suo Fender Rhodes, molto vintage: erano Lieder di Schubert ma sembrava di ascoltare Elton John), altri cantati dal mezzosoprano Tora Augestad (accompagnata al pianoforte da Christian Eggen), alcune pagine per baritono e ensemble composte ex novo da Buene, basate su frammenti del diario di Schubert, cantate da Halvor Mellen (con la Oslo Sinfonietta diretta da Christian Eggen): ne veniva un intreccio di stili diversi ma carico di poesia, che faceva rivivere in tempi moderni la dimensione poetica e intimistica di una autentica schubertiade.
Immagine di copertina: Eivind Buene, Schubert Lounge