La compositrice romana Clara Iannotta, classe 1983, è unanimemente riconosciuta a livello internazionale come una delle voci più interessanti della sua generazione. Formatasi al Conservatorio di Milano, al Conservatoire di Parigi, all’IRCAM, e poi all’Università di Harvard, ha visto negli ultimi anni una carriera in continua ascesa, costellata di lavori caratterizzati da un linguaggio sonoro estremamente personale e da una visione su tempo e forma di grande interesse. Dopo essere stata recentemente insignita dell’Hindemith-Preis del Schleswig-Holstein Musik Festival, l’abbiamo incontrata per parlare con lei del suo percorso musicale e dei suoi progetti futuri.
Nel corso della tua vita hai studiato e vissuto in luoghi molto diversi fra loro e, come molti altri compositori italiani, risiedi da anni stabilmente all’estero. Cosa ti hanno lasciato questi posti?
A parte Berlino — dove mi sono trasferita per una residenza artistica e dove a tutt’oggi risiedo — ho sempre studiato nelle città in cui ho vissuto: Roma, Milano, Parigi, Boston. Se dovessi sintetizzare in poche parole la mia esperienza in ognuno di questi luoghi, direi che la Francia mi ha insegnato la serietà del mestiere di compositore, gli Stati Uniti hanno acceso in me la passione per la politica e la Germania mi ha dimostrato quanto importante sia per un artista il saper e poter rischiare. Tutto questo, unito al preziosissimo confronto con i miei colleghi e alle esperienze che vissuto nei diversi contesti musicali internazionali in cui mi sono trovata a lavorare, hanno contribuito alla mia formazione come compositore e cittadino.
Nei tuoi primi pezzi editi, penso ad esempio a Al di là del bianco (2009) per clarinetto basso e trio d’archi, scritto per l’ensemble Multilatérale, o ad altri lavori di poco successivi, emerge un’evidente ossessione per un tempo scandito da griglie ritmiche estremamente squadrate che emergono da zone invece assai più fluide. Cosa hai ricercato in questo aspetto temporale del tuo materiale musicale?
Fra il 2009 e il 2012 ho lavorato moltissimo sul suono, inteso come un organismo complesso costituito da vari livelli di profondità timbrica. Il punto di partenza di ogni pezzo scritto in quel periodo era un suono immaginario. In quel contesto, ritmo e suono avevano per me un legame indissolubile e pertanto definire un suono significava anche trovarne il ritmo interiore. Questo tipo di lavoro su suono-ritmo mi ha permesso di arrivare a costruire dei veri e propri oggetti sonori ben riconoscibili tanto nella forma quanto nella temporalità e, proprio per questa ragione, tutti i miei pezzi fino al 2012 (con qualche strascico fino al 2014) sono basati su griglie ritmico-timbriche.
Un altro aspetto ben evidente in diversi tuoi lavori è poi il ritornare di una situazione iniziale generata dalla risonanza di un impatto che prende vita evolvendo in direzioni diverse: penso ad esempio a lavori come Limun, per violino, viola e due volta-pagine, ad Àphones per 17 musicisti o al tuo primo quartetto d’archi, A Failed Entertainment, scritto per il Quatuor Diotima durante la tua residenza alla DAAD (Berliner Künstlerprogramm) di Berlino.
Come ho detto, in quegli anni mi interessava lavorare su oggetti sonori. Li pensavo quasi come personaggi e, proprio per questo, il poterli far riapparire ad un certo punto nel pezzo (normalmente alla fine) mi dava la possibilità di rivestirli di un nuovo significato percettivo, pur senza modificare la loro essenza. Per quanto formalmente complesso un pezzo possa essere, l’esperienza dell’ascolto è sempre lineare, e il ricorrere alla memoria si può spezzare questa dimensione.
A fronte del tuo iniziale interesse per l’incasellato del suono in griglie ritmiche precise di cui già abbiamo parlato, nel tempo mi pare che la tua attenzione sia sempre più stata attratta dall’osservazione di eventi sonori estremamente complessi ma, allo stesso tempo, lasciati liberi di espandersi nel tempo, come superfici, senza che vi vengano necessariamente imposte strutture temporali di chiara evidenza all’ascolto. Penso in particolare, al tuo Intent on Resurrection – Spring or Some Such Thing, composto per l’Ensemble Intercontemporain su commissione del Festival d’Automne, e ad altri tuoi lavori successivi. Cosa ti ha spinta a spostare il tuo focus compositivo e cosa ha significato questo per te?
In Intent on Resurrection in realtà c’è un grandissimo lavoro sul ritmo, ma all’interno del suono stesso. Ogni singola componente sonora — potremmo quasi chiamarla cellula — è infatti caratterizzata da una sua propria vibrazione, per cui l’accostarle l’una all’altra finisce per creare un paesaggio sonoro vivente che sembra quasi respirare. Si determina così un’apparente immobilità che tende a dilatare la percezione del tempo.
Dopo tutto il lavoro fatto guardando il suono dall’esterno per costruire i miei oggetti sonori, questo pezzo è sicuramente il primo in cui la mia ricerca si sia spostata al suo l’interno per esplorare l’intimità della vibrazione nello spazio. Qui non è più il suono a generare il ritmo. Al contrario, è piuttosto il movimento a far sì che ogni componente si avvicini o si scontri all’altra, facendo così nascere il materiale verticale sonoro che costituisce il pezzo (o almeno questa è la mia interpretazione di Intent on Resurrection). Questo tipo di lavoro mi ha completamente stravolta, tanto che subito dopo averlo ascoltato non sono riuscita più a scrivere per undici mesi. Le fondamenta che determinavano la mia musica erano crollate e mi serviva un po’ di tempo per capire come ripartire.
A questo proposito, ho trovato particolarmente interessante il fatto che, proprio nel lavoro successivo, Troglodyte Angels Clank By per ensemble, scritto per l’ensemble 2e2m e il Festival Présences di Radio France, la partitura, oltre a richiedere un’amplificazione mirata a mettere in luce aspetti davvero liminari del suono, mostri talvolta una scansione in secondi che va a sostituire le vecchie battute.
Trogolyte Angels Clank By è il pezzo che viene dopo gli undici mesi di crisi. In quel periodo continuavo a chiedermi: “come si mette un scena un urlo sussurrandolo?”. Se urli mettendo un cuscino davanti alla bocca, sebbene il risultato sonoro che ne deriva sia smorzato, la sensazione fisica resta invariata. In un certo senso, il cuscino intensifica l’effetto, perché imprigiona un’energia che prima rappresentava un atto di rilascio. Come già era successo con Intent on Resurrection, quello che qui mi interessava era l’esplorazione dell’energia interna di un suono, ed è quindi anche per questo che ho fatto ricorso all’amplificazione.
Per quanto riguarda invece la scrittura temporale degli eventi, sebbene la maggior parte della partitura sia scritta in battute, scrivere l’inizio e la fine di questo pezzo in questo modo non avrebbe avuto senso: questa è una musica che ha bisogno di tempo per essere ‘vista’.
Parlando di tempo, mi viene in mente che, nella nota di programma di A Failed Entertainment per quartetto d’archi, sottolinei come la lettura di Infinite Jest di David Foster Wallace abbia in qualche modo guidato la tua riflessione su tempo e forma. Ce ne vorresti parlare?
Infinite Jest è un romanzo di oltre mille pagine con un’enorme numero di personaggi che compaiono in una struttura narrativa non convenzionale. Personalmente, ho avuto bisogno di superare le prime quattrocento per iniziare a capire di cosa il libro trattasse. In un primo momento, la struttura formale di Infinite Jest si presenta infatti come una sorta di trasposizione letteraria della moment-form di cui parla Stockhausen e così, sebbene l’esperienza della lettura si svolga linearmente, le situazioni presentate nel libro sembrano accadere tutto allo stesso momento, atemporalmente.
A causa della contorta narratività del romanzo, che racchiude infatti al suo interno strati di memoria che sfidano l’abilità del lettore nell’individuare il giusto istante in cui ogni evento si colloca, solo una volta arrivati alla fine si riesce in qualche modo a collegare i vari momenti tra loro in una sequenza temporale. Quello che mi ha colpito di più di quest’opera è stato il fatto che Wallace vi concepisse il tempo nello stesso modo in cui io pensavo il suono: se in Infinite Jest il tempo non è altro che l’insieme degli strati della memoria, per me il suono è la combinazione dei diversi livelli di profondità timbrica. Dopo aver letto questo libro ho cominciato a pensare alla forma non più semplicemente come scatola contenente i miei oggetti sonori, ma anche come spazio che ospita e modella ciò che sta al suo interno, dialogando con esso.
A partire da Limun, un lavoro per violino, viola e due volta–pagine del 2011, hai cominciato ad affiancare un numero sempre crescente di oggetti sonori agli strumenti veri e propri, come armoniche a bocca, tubi corrugati, richiami per uccelli, campanelli, fino ad arrivare a elementi di forte impatto visivo, come le buzzing machine disposte dietro al quartetto d’archi nel tuo ultimo quartetto d’archi, dead wasps in the jam-jar (iii), scritto per l’Arditti String Quartet su commissione del Festival d’Automne di Parigi. Com’è nata quest’esigenza espressiva?
Come ho detto, nei primi anni da studente di composizione, il punto di partenza di ogni pezzo era un suono immaginario. Limun coincide con la fine del Cursus all’IRCAM (2010–11), la mia prima esperienza con la musica elettronica. Lì ho imparato come creare e modellare suoni senza pormi nessun limite fisico o immaginativo se non quello tecnico dovuto alla conoscenza dei programmi informatici. Da allora ho applicato lo stesso approccio alla musica acustica, cominciando a pensare ai miei suoni indipendentemente dagli strumenti che ho a disposizione, e questo ha ovviamente implicato, fra le altre cose, anche l’integrazione di oggetti. È importante capire che l’uso di armoniche a bocca, tubi, polistirolo, ecc., non ha come scopo l’abbellimento o la decorazione del suono: utilizzo questi oggetti perché è l’unico modo che mi permette una fedele rappresentazione fisica dell’immagine sonora che ho in mente.
Un aspetto che mi sembra poi molto importante nella tua musica recente è l’organizzazione di veri e propri curpus di lavori incentrati attorno a una stessa tematica. È il caso ad esempio di quello inaugurato da Glockengießerei per violoncello ed elettronica e poi conclusosi con The people here go mad. They blame the wind, ispirato dal suono delle campane della cattedrale di Freiburg im Breisgau, della serie di lavori legati alla poesia dell’irlandese Dorothy Molloy (1942-2004) o della recente serie dead wasps in the jam-jar, di cui fa parte anche il tuo nuovo quartetto per il Festival d’Automne. Vorresti parlarcene?
Se Glockengießerei, Clangs, e D’après sono essenzialmente lo stesso pezzo riorchestrato, dilatato o compresso, i cicli che ho scritto dal 2014 in poi sono concepiti diversamente e i pezzi che li compongono, benché non abbiano molto a che vedere l’uno con l’altro, condividono l’esplorazione della diversa energia di un’immagine comune. Intent on Resurrection — Spring or Some Such Thing e Troglodyte Angels Clank By, ad esempio, partono dalla stessa immagine/sensazione: quella di essere in uno spazio chiuso in cui l’aria è satura di polvere fitta. All’inizio non si vede nulla e non si ha neppure la percezione del proprio corpo, ma poi, man mano che gli occhi si abituano e si inizia a distinguere i diversi granelli di polvere con le sfumature dei loro colori, ci si rende conto come anche un debole raggio di sole possa cambiare la prospettiva di un mondo apparentemente immobile.
In entrambi questi lavori ho quindi rappresentato quello che è per me il suono di questa polvere, ma facendo in modo che la sua esplorazione sonora e temporale sia in essi completamente diversa: se in Intent on Resurrection l’idea di partenza e di arrivo è una nuova prospettiva della stessa immagine, in Troglodyte Angles l’idea della polvere si tramuta in pretesto per dar vita a tutt’altra metafora che ho poi elaborato nel ciclo dead wasps in the jam-jar.
A partire dal 2014 dirigi il Bludenzer Tage zeitgemäßer Musik, un festival che, nel giro di pochi anni, si è distinto a livello internazionale per il coraggio di una programmazione estremamente attenta a mettere in luce estetiche e voci del mondo musicale contemporaneo improntati a un’autentica ricerca sul linguaggio. Cosa ha significato per te quest’esperienza?
Il Bludenzer Tage zeitgemäßer Musik è un festival che esiste dal 1988, e che ha avuto, prima di me, direttori artistici quali Georg Friedrich Haas, Wolfram Schurig, Alexander Moosbrugger. Quando me ne è stata offerta la direzione artistica — dapprima per due soli anni, diventati poi cinque e ora sette — ho accettato immediatamente per la semplice gioia di poter programmare la musica che mi piace ascoltare. Col tempo però ho capito che essere un direttore artistico è un lavoro di grande responsabilità che non può essere guidato semplicemente dal gusto personale (se seguissi solo quello mi ci vorrebbero cinque minuti per programmare un concerto), ma che richiede di maturare un senso di ricerca e la consapevolezza che la scena musicale è definita e plasmata da tutti quelli che hanno la possibilità di offrire una piattaforma agli artisti del nostro tempo, si tratti di un singolo concerto, un intero festival, o anche solo di un’occasione di ascolto in una scuola. Questo lavoro mi ha messa di fronte a sfide che in quanto compositore forse non avrei incontrato, obbligandomi ad avere una visione più consapevole di quello che è l’ambiente della musica contemporanea di oggi e a qual è la natura del contributo che voglio dare a questa comunità.
Che progetti hai per il futuro?
Da qui alla fine del 2019 ho tanti pezzi da scrivere. Fra questi, due lavori per la Biennale di Monaco e i Ferienkurse di Darmstadt in cui la musica viene vissuta anche attraverso gli occhi, il mio primo pezzo per orchestra (per il festival Witten 2019) e un terzo quartetto d’archi per il JACK quartet. Poco a poco, sto poi cominciando a dedicarmi anche all’insegnamento.