È proprio vero che tutte le strade portano a Roma; e il trio Bassifondi, capitanato da Simone Vallerotonda con i suoi sodali Stefano Todarello e Gabriele Miracle hanno riscoperto la musica che nel XVII secolo affollava quelle strade. Il loro nuovo disco per l’etichetta Arcana è, infatti, un omaggio alla Città Eterna. Abbiamo incontrato i tre, romani veraci, per parlare di Roma ‘600 (di cui hanno prodotto anche un singolare videoclip).
Com’è nato il gruppo Bassifondi?
Simone Vallerotonda: «Ci siamo conosciuti inizialmente io e Gabriele Miracle, suonando in un altro gruppo. Gli ho parlato di questa mia idea di ricostruire un trio barocco durante vari viaggi in treno e in macchina e ha accettato. Non siamo arrivati subito a Stefano, siamo passati per vari liutisti, colascionisti, chitarristi. Alla fine questa è la formazione ufficiale nella quale Stefano Todarello ricopre oltre al ruolo di colascione e chitarra battente anche quello di suonatore di vari strumenti a fiato, che specialmente nell’ultimo disco sono una presenza fondamentale. Il nostro primo lavoro (Alfabeto falso) è uscito nel 2017 ed è andato molto bene: l’abbiamo suonato un anno e mezzo prima di inciderlo e stiamo ancora continuando a proporlo».
I Bassifondi: Roma ‘600
Come si progetta un disco dei Bassifondi?
SV: «I dischi sono la nostra croce e delizia, andare davanti ai microfoni è l’ultimo dei passaggi. Secondo noi, fare un disco di musica antica significa proporre qualcosa di nuovo oppure una nuova lettura di qualcosa che è già stato inciso. Questo significa che dietro ci dev’essere una ricerca, cioè devi essere scientificamente inattaccabile. Noi non andiamo a ruota libera a creare, non facciamo crossover. Non è nel nostro stile e neanche nel nostro interesse. Abbiamo dei limiti da rispettare: dell’autenticità, della filologia, delle fonti, del diapason, delle corde di budello, degli strumenti giusti. Tutte queste gabbie sono in realtà delle bellissime spinte per ricercare e questo richiede tempo, fatica, errori, passi indietro, ripensamenti».
Anche per il vostro nuovo disco Roma ‘600 avete guardato all’alfabeto falso?
SV: «Più o meno sì. Siamo nella Roma della prima metà del ‘600, c’è una Passacaglia di Valdambrini piena di accordi falsi. Però è un disco che ha un’attenzione rivolta altrove, alla Roma più popolana. Quindi i compositori sono tutti romani. Come noi»
Stefano Todarello: «In Roma ‘600 abbiamo cercato di ricreare quelle atmosfere più popolari attraverso l’utilizzo di strumenti caratteristici: zampogne, cornamuse, flauti, ciaramelle e strumenti ad ancia. Sempre suonati da me in modo, diciamo, “non accademico”. Per tanti anni ho sempre suonato musica popolare oltre all’ambito classico, e questo credo mi abbia dato quel tocco un po’ popolaresco che caratterizza questo disco. Abbiamo inserito in alcuni brani strumenti popolari e abbiamo visto che questa commistione tra suoni del popolo e suoni barocchi è praticamente sempre esistita: l’abbiamo semplicemente riscoperta, tirata fuori come se avessimo scolpito qualcosa che stava già lì».
SV: «Tra l’altro la presenza di Stefano è stata casualmente fondamentale, nel senso che io e Gabriele parlavamo a seguito di una mia ricerca sulla musica di Kircher, sull’Antidotum tarantulae e sul Magnes sive de Arte magnetica. Ci siamo resi conto che lui parla di certi tipi di strumenti che sono quelli che suoniamo noi. Cioè: per suonare l’Antidotum tarantulae Kircher non parla di strumenti delicati. Parla di un tipo di percussione che fa un casino infernale: descritto come suonato da una parte con una verga, dall’altro con una frasca. È un tamburo enorme, a cui ci si accompagnava con le zampogne. E un giorno parlandone con Stefano è uscito fuori casualmente che colleziona zampogne. E ho detto “perfetto!”»
Musica di strada nella Roma barocca
Questi due estremi che descrivete, la musica del popolo, delle taverne e quella delle corti: erano così lontani?
SV: «Per niente. È per questo che abbiamo inciso diverse Moniche, o Aurille mie, o Giromette: il nostro tentativo vuol mostrare come un materiale possa essere utilizzato in vari ambiti e da varie mani in varie modalità. Quella che è un’aria famosa o uno standard del barocco come è l’aria della Monica o la Girometta, temi e melodie popolari, passa tranquillamente da un’esecuzione popolare a un capriccio a quattro voci reali scritto da Frescobaldi. E noi mettiamo vicine queste due cose, per far vedere come lo stesso materiale sia stato utilizzato ed elaborato da ambiti e mani differenti».
E con le percussioni, di cui non esistono indicazioni, come avete risolto? Improvvisazione?
Gabriele Miracle: «Sì, come già in Alfabeto falso, fermo restando che la musica che ci è arrivata, in un certo senso, appartiene a un contesto di élite. Allora con le percussioni abbiamo cercato dei suoni, delle atmosfere che possano in qualche modo dare voce a un mondo, quello più popolareggiante, del quale non ci è arrivata tanta informazione quanta invece ne è arrivata per la musica colta. Io non ho nessun tipo di manoscritto, nessuna fonte, niente di scritto per le percussioni, se non delle raffigurazioni. Quindi cerco di dare voce a un affresco, a un quadro, a un disegno, o a una testimonianza in qualche testo scritto».
Oltre agli strumenti popolari c’è anche un ospite d’onore: Enrico Onofri.
SV: «La partecipazione di Enrico è stata una fortunatissima e piacevolissima conferma della apertura mentale di un grande musicista, perché abbiamo volutamente utilizzato uno dei brani più “rock” della storia del barocco. Foscarini’s groove è un estratto di una toccata per chitarra di Foscarini, con un ritmo e un’armonia scritti realmente così, pari a quella dei Led Zeppelin. Sopra al quale abbiamo pensato di far fare un’improvvisazione in stile 1640, quindi in stile Bovicelli o Rognoni: quanto di più comune potesse accadere in un contesto popolare come quello che abbiamo cercato di ricreare noi. Quello che a un primo ascolto potrebbe sembrare un’operazione, come si dice a Roma, piacionica, in realtà è frutto di un tentativo di improvvisazione secondo le regole dei manuali del Seicento».
Ascoltare musica antica bevendo birra
Una cosa che incuriosisce molto dei Bassifondi è la scelta di portare la musica antica fuori dai suoi ambienti tradizionali: fate concerti anche in pub, taverne e birrerie. Siete riusciti ad avvicinare un pubblico estraneo a questo tipo di musica?
SV: «Assolutamente sì. Questo progetto parallelo all’attività accademica “ufficiale” nasce proprio dalla nostra volontà di offrire innanzitutto a un pubblico che magari non si può permettere un biglietto di teatro da quaranta-cinquanta euro di venire ad ascoltare in un pub con una birra in mano una musica che non ha mai sentito, vedere strumenti che non ha mai visto e regalarsi qualcosa di diverso. Quindi per prima cosa vuole essere un’operazione sociale. Poi c’è anche un nostro ritorno: spesso suonare in questi posti per noi è quasi più gratificante. Offrire e far conoscere queste note e queste sonorità a un pubblico che non le ha nemmanco mai immaginate e vedere che l’interesse è come il nostro la prima volta che abbiamo sentito un disco di musica antica è una grandissima soddisfazione.
GM: «Penso che agli ascoltatori meno avvezzi crolli un mondo di preconcetti quando sentono i Bassifondi, perché dopo vengono a parlarti e fanno fatica a credere che veramente le armonie son quelle scritte o le melodie son veramente quelle. Devono ripensare tutto quello che hanno sempre creduto a proposito della musica antica, sono impressionati dalla modernità e dalla freschezza del tipo di messaggio».
Foto Ph. Matteo Casilli