Alfabeto falso: l’esordio discografico dei Bassifondi

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C’è una curiosa citazione nei ringraziamenti all’interno del booklet di “Alfabeto falso”, esordio discografico dei Bassifondi: oltre ad amici, parenti e tutti coloro che hanno fornito il loro sostegno alla realizzazione, il trio cita «Mike Rutherford ispirazione eterna per il groove e le linee di basso». Come si accosta il bassista dei Genesis ad un trio che propone musiche di compositori del seicento italiano e spagnolo?

In effetti nei primi lavori della band inglese le ballate popolari di epoca rinascimentale e barocca sono fonti d’ispirazione costante (si pensi a un disco come Nursery Cryme). Si aggiunga anche che uno storico della popular music come Peter Van Der Merwe (in Origins of Popular Style, 1989) faceva notare le similitudini tra i procedimenti armonici tipici del rock e quelli di musiche da ballo risalenti ai secoli xvi-xvii, come il passammezzo e la follia.

Non solo analogie armoniche e formali: si tratta anche di una questione riassumibile nel concetto di mood, di sensazioni che il terzetto riesce a trasmettere tanto nel disco quanto nelle loro esibizioni dal vivo. E un esempio si è avuto la sera del 26 gennaio in cui nella cornice intima della libreria milanese MaMu, Simone Vallerotonda (tiorba, chitarra barocca e chitarra battente), Gabriele Miracle (percussioni), e Stefano Todarello (colascione), hanno proposto un singolare confronto tra la musica per liuto e chitarra di compositori italiani e spagnoli della prima metà del Seicento.

Confronto che in verità è arduo definire tale: i punti di contatto tra autori quali Ferdinando Valdambrini, Johannes Hieronymus Kapsberger, Francesco Corbetta e gli ispanici Santiago de Murcia e Gaspar Sanz sono di gran lunga più numerosi di quelli di divergenza. Comune è l’utilizzo dell’alfabeto come sistema di notazione, di modo che anche i dilettanti potessero approcciare lo strumento con facilità: era sufficiente interpretare la legenda posta all’inizio delle raccolte, riportante l’intavolatura corrispondente ad ogni lettera. Comuni sono le danze e gli stili compositivi dell’epoca, dato che tali musicisti hanno spesso servito le corti di tutta Europa, sebbene oggi siano ricordati quasi solo esclusivamente come teorici (è il caso di Giovanni Paolo Foscarini). Lo stesso gusto italiano che si impose durante il rinascimento probabilmente risentiva anche della dominazione spagnola nel Regno di Napoli, ed è dunque difficile, anzi impossibile, stabilire confini quantunque sfumati.

C’è, in effetti, un paragone molto più stimolante dal punto di vista acustico, e riguarda quello con la musica contemporanea, soprattutto nel suo versante popular. Tutti questi compositori appaiono decisamente sbilanciati verso il limite verticale della musica, al punto da sviluppare un “alfabeto falso” – da cui anche il titolo del disco – parallelo a quello ordinario: un alfabeto composto da note estranee alle concezioni armoniche dell’epoca, volutamente dissonante allo scopo di arricchire la tavolozza dei colori. Spontanea è la similitudine con la tecnica dei voicing utilizzata dai jazzisti (si pensi alle particolarissime coloriture accordali di Thelonious Monk, ad esempio).

Anche dal punto di vista ritmico, con l’estroso accompagnamento delle percussioni e del basso continuo la sensazione è di stare ascoltando un concerto di musica rock del Seicento. Proprio Gabriele Miracle spicca con il suo modo mai banale di accompagnare le progressioni armoniche di chitarra e tiorba, sottolineandone spesso un trillo o un’appoggiatura. La sua esecuzione è quasi per intero una ricostruzione in gran parte improvvisata che, lungi dall’essere mero metronomo per sottolineare i tempi forti, è basata sui ritmi e sui passi di danza dell’epoca, certe volte apparendo come una vera e propria terza voce tra chitarra e colascione.

Per quanto il nome di Rutherford non sia nulla più che una simpatica strizzatina d’occhio, tale ringraziamento appare rivelatorio di quelli che sono gli orizzonti dell’autodefinito “power trio”. I Bassifondi, sia su disco sia dal vivo, sembrano occhieggiare più verso la direzione del rock e del jazz piuttosto che alle incisioni “storicamente informate” di certa early music.

E (paradossalmente!) secondo le ricerche del liutista romano, è proprio la loro rilettura ad essere più storicamente accurata rispetto allo stile spesso posato e riflessivo proposto dai fautori di quest’ultima. Pur mancando fonti certe, ossia le parti scritte per percussioni e colascione, ci sono testimonianze indirette dalle quali si può desumere – o quantomeno supporre – che un liutista suonasse spesso accompagnato da questi due strumenti. Il trio ha allora cercato di ricostruire le parti, basandosi sullo stile compositivo dell’epoca. Una proposta certamente un po’ spiazzante anche per chi ha abbastanza familiarità con il repertorio secentesco: esempi di ensemble simili sono abbastanza rari, e riconducibili forse al solo Rolf Lislevand di cui Vallerotonda è stato allievo. Ma anche sorprendente per la freschezza e la vivacità del risultato.

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