È calato il sipario sul Trovatore di Verdi all’Opéra Bastille. Sino a metà marzo i parigini hanno potuto rivedere l’allestimento che aveva debuttato nell’ottobre 2015 all’Opera di Amsterdam (coproduzione con l’Opéra National de Paris) per la regia di Alex Ollé (La Fura dels Baus).
Sebbene il libretto imbastito da Cammarano presenti sempre in filigrana le fiamme del rogo sacrificale, poche scintille si sprigionano tanto dalla buca quanto dal palcoscenico. Alzato il sipario il coro si presenta disposto su due file con viso coperto da maschere antigas.
A dare esclusiva sostanza alla dimensione visiva di Alex Ollé una serie di parallelepipedi che, nel corso del dramma, si alzano e abbassano incastrandosi in simmetriche aperture sul piano (di calpestio) della scena, richiamando a tratti il “Memoriale dell’Olocausto” di Berlino progettato da Peter Eisenman.
Una sorta di cretto di Burri segmentato a scacchiera che incornicia le furenti passioni dei protagonisti non sempre (adeguatamente) valorizzate dalla bacchetta di Daniele Callegari, chiamato a guidare un cast comunque più che discreto: Hui He, solida Leonora (in alternanza con Netrebko), bella pasta vocale e raffinata emissione di fiati; Marcelo Alvarez, Manrico navigato in singolar tenzone con Vitaliy Bilyy (Conte di Luna).
Alla fine di una spettacolo tiepido due colpi di pistola tentano (invano) di imprimere una fibrillazione: Manrico e Azucena (Ekaterina Semenchuk) cadono a tera esanimi; rimane solo il Conte “inorridito”, come da didascalia.