Il Don Carlos andato in scena all’Opéra di Lione si basa sulle prove francesi del 1866. Lo spettacolo di Christophe Honoré era sobrio, austero, scuro. Un plauso agli attori

Particolarmente tormentata è la tradizione testuale del Don Carlos di Verdi, di cui si contano varie versioni: quella delle prove del 1866; quella privata di sette ampi passaggi eseguita alla prima rappresentazione parigina dell’11 marzo 1867; la quale fu a sua volta privata, nelle repliche, della scena che segue la morte di Rodrigue.
Nel 1872 una quarta versione, tradotta e presentata a Napoli, riprende l’originale parigino in cinque atti, con un primo rifacimento del duetto Filippo II- Rodrigo. Una quinta versione, pure in italiano, è quella della Scala, presentata il 10 gennaio 1884: Verdi taglia il primo atto e opera colossali rifacimenti riguardanti, tra gli altri, il duetto Don Carlo- Rodrigo e Filippo II – Rodrigo. Infine, questa versione definitiva viene ripresa con il ripristino del primo atto tradotto in italiano, e presentata a Modena nel 1886.
Don Carlos a Lione
L’esecuzione dell’Opéra di Lione si basava quasi interamente sulla versione francese eseguita durante le prove del 1866. Nella sua struttura vastissima, offriva quindi molta musica sconosciuta, compresi i duetti Don Carlos-Rodrigue e Philippe-Rodrigue, nella stesura originale. Anche in altri pezzi, come ad esempio l’ultimo duetto Don Carlos-Élisabeth, ci sono varie pagine radicalmente modificate in seguito in quanto poco “caratteristiche”, come diceva Verdi.
L’ascolto di questa versione è dunque di estremo interesse. Non tanto per la qualità della musica tagliata in seguito, ma perché, avendo nell’orecchio il Don Carlo che conosciamo, vediamo Verdi alle prese con il non-finito; ne cogliamo l’arte del levare, migliorare, e trasformare l’opera in vista della perfezione finale.
Così, chi aveva in mente la versione definitiva ha potuto constatare, nel confronto con ciò che è stato modificato o tagliato in seguito, la potenza shakespeariana della sintesi operata da Verdi nei rifacimenti successivi di testo e musica. L’esecuzione, sotto la bacchetta di Daniele Rustioni è parsa raffinata e sfumata, profonda e vera nella resa di un sinfonismo sontuoso, mai prevaricante sulle voci.
La compagnia
L’ eccellente compagnia di canto era formata da Michele Pertusi (Philippe II) Sergey Romanovsky (Don Carlos) Stéphane Degout (Rodrigue) Roberto Scandiuzzi ( Le Grand Inquisiteur) Heve-Maud Hubeaux (Eboli) e Sally Matthews, vocalmente un po’ più debole come Elisabetta. Lo spettacolo di Christophe Honoré era sobrio, austero, scuro, con scene semplici ma sempre diverse. Una scelta necessaria per un’opera così lunga, che mal sopporterebbe la scena unica.
Molto buono è parso il lavoro sugli attori e la naturalezza della recitazione. Unica bizzarria, presentare Eboli seduta in carrozzella con una gamba rotta. Scelta comprensibile forse solo come un omaggio alla grande scuola lionese di ortopedia; difficile però da giustificare per il personaggio più elegante, disinvolto, seduttivo e mondano dell’opera.
Paolo Gallarati