Trento: il caso Majorana diventa un’opera

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Imbarcatosi la notte del 26 marzo 1938 su un traghetto da Palermo per Napoli, Ettore Majorana, grande fisico che aveva lavorato nel gruppo di Enrico Fermi (i famosi “ragazzi di via Panisperna”), scomparve misteriosamente nel nulla. Iniziarono subito le ricerche, sollecitate anche dallo stesso Enrico Fermi, da Giovanni Gentile, da Benito Mussolini, che ricevette una supplica dalla madre dello scienziato. Ma furono vane. Nacque allora un vero e proprio “caso Majorana”: forse il giovane scienziato si era suicidato gettandosi in mare, forse era stato assassinato, vittima dei servizi segreti o di una congiura di fisici (ipotesi di Umberto Bartocci), forse era vissuto come barbone, forse si era ritirato in un convento (ipotesi di Leonardo Sciascia), forse era fuggito segretamente in Germania per lavorare al soldo dei nazisti (ipotesi di Federico Di Trocchio), forse era andato a vivere in Sudamerica (ipotesi della procura di Roma, che ha così archiviato il caso, dopo anni di indagini, sulla base di una foto scattata in Venezuela nel 1955).

Il maggior contributo alla scienza di Ettore Majorana è rappresentato dai suoi studi sulle particelle elementari (per primo avanzò l’ipotesi dell’interazione tra protoni e neutroni), sull’antimateria, sulla meccanica quantistica. E la sua “equazione a infinite componenti”, base teorica dei sistemi quantistici aperti, mostra una sorprendente coincidenza con la vasta casistica di congetture sulla sua scomparsa. Questa formula dimostra come una stessa particella possa contemporaneamente muoversi avanti e indietro nello spazio e nel tempo, possa avere contemporaneamente due o più stati tra loro opposti, capaci di coesistere e relazionarsi all’interno di uno stesso sistema fisico. Da un’idea analoga sono partiti il librettista Stefano Simone Pintor e il compositore Roberto Vetrano per l’opera Ettore Majorana, messa in scena al Teatro Sociale di Trento, nell’ambito di Oper.a.20.21 della Fondazione Haydn. Partendo dal libro di Sascia, La scomparsa di Majorana, Pintor ha studiato la vasta letteratura sul caso Majorana, e con l’aiuto di di Erasmo Recami, massimo biografo di Majorana, ha iniziato a scrivere il libretto in stretto contatto con Vetrano. Ne è risultata una drammaturgia spiraliforme, molto originale, capace di contemplare le diverse ipotesi sulla scomparsa del fisico catanese, tutte plausibili e valide contemporaneamente. Un’opera dove il contenuto aderiva alla forma, dove la vicenda era narrata in maniera non lineare, ma con una struttura circolare e frattale, con un tempo che si riavvolgeva mettendo in scena le diverse ipotesi della scomparsa dello scienziato («Tutta l’opera ha una sua macrociclicità – spiega Pintor – perché è concepita come una sorta di torre verticale, una struttura ispirata al mondo matematico, con più variabili di uno stesso avvenimento, declinato in tutte le sue ipotetiche versioni»).

La musica di Vetrano mescolava stili diversi ma con un “colore” comune, dato da precisi campi armonici e da una sapiente orchestrazione, e giocava su due procedimenti: una sorta di “sbriciolamento” del materiale tra i diversi strumenti, e una struttura compositiva “a terrazze”, basata su stratificazione di elementi contrastanti. Il risultato era una partitura solida, articolata in dieci scene distinte, strumentalmente ben scritta, con una perfetta calibrazione dei tempi teatrali, ricca di invenzioni timbriche ben evidenziate dalla direzione di Jacopo Rivani. Nella prima metà dell’opera (che descriveva lo straniante viaggio in nave di Majorana, come una sorta di grande incubo che culminava nel suo suicidio) emergevano alcuni elementi ricorrenti, come una sinistra fascia armonica (di fiati gravi, percussioni, apra e pianoforte) che evocava la Sirena della nave, e la “Ballata dei trenta giorni”, una melodia orecchiabile, intonata dalla cantante sulla nave (Alessandra Masini). Si apprezzavano anche le transizioni tra parti vocali e zone timbriche sospese, le metamorfosi nelle parti corali, come il rosario bisbigliato del coro di frati, che si trasforma in una trama di fonemi (il testo della preghiera prosciugato dalle vocali) e quindi nel teorema di Majorana, recitato dal coro sulle trame secche, pulsanti e percussive dell’orchestra. Teatralmente efficaci anche gli innesti dell’elettronica, le voci registrate (come il notiziario radiofonico che, con un improvviso salto indietro nel tempo, riportava all’agosto del 1906, alla nascita di Ettore Majorana), gli effetti strumentali sibilanti ottenuti con tubi corrugati. Meno interessante è parsa invece la scrittura vocale, dominata da un declamato un po’ indistinto, nonostante l’ottima prova dei cantanti, soprattutto Lucas Moreira Cardoso (Ettore Majorana), Ugo Tarquini (L’Antimajorana), Pietro Toscano (Dio) e Federica Livi (La Fisica).

Dell’opera Ettore Majorana, Stefano Simone Pintor ha curato ance la regia («Il libretto si è sviluppato di pari passo con la progettazione dell’opera, tenendo conto simultaneamente della musica e della messinscena. La gestazione dell’intera opera è avvenuta infatti come un processo unitario, perché allo stesso tempo il compositore influenzava la regia, la regia influenzava il libretto, il libretto influenzava la musica»), dominata da una chiara idea di teatro totale, dove tutto ruotava intorno al protagonista, e al suo moltiplicarsi, insieme alle ipotesi sulla sua fine. Un teatro straniante, basato su uno spazio scenico semplice e astratto (scene e costumi di Gregorio Zuria), che rappresentava luoghi diversi, grazie a una passerella aggettante verso la platea, alle proiezioni di un mare tempestoso, al video mapping (video design dello Studio Antimateria): così il teatro appariva come l’interno di una nave o come un planetarium, dove scorrevano formule, pensieri, nebulose, trasformandosi in un vortice nel quale alla fine Majorana scompariva.

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