«Stardom as a mediator of meaning does not depends on biographical accuracy» [la condizione di star, come funzione della formazione di significati, non dipende dall’accuratezza biografica].
Così scriveva Lee Marshall nella sua monografia dedicata a Dylan come figura centrale nella definizione della figura della star nella popular music. È una lezione che sicuramente Todd Haynes ha ben imparato nel corso della sua carriera, celebrata dal premio alla carriera al Festival di Locarno, in occasione del quale il regista ha anche rilasciato un’intervista a Variety. Naturalmente non solo di musica ha vissuto il suo cinema, ma alcuni suoi titoli hanno saputo raccontare il mondo della produzione musicale contemporanea con modalità mai scontate, che presuppongono un alto livello di riflessione e di approfondimento sull’intero sistema della produzione di significati che si trova intorno a queste musiche.
Proprio per questa ragione l’annuncio di essere impegnato nella realizzazione di un documentario sui Velvet Underground promette essere un lavoro caratterizzato dalla passione di Haynes per il rock in quanto cultura visuale, più che – o almeno quanto – sonora. Significativamente il regista ha evocato come istanza centrale il legame indissolubile del gruppo di Lou Reed, John Cale, Maureen Tucker e Sterling Morrison con un livello di riflessione sulla popular culture contemporanea all’incrocio tra diverse arti, il gruppo infatti affondava le radici del proprio lavoro in: «a truly experimental cross-section of film, contemporary art, and a rejection of mainstream consumer culture at a very rich and fertile time of the 1960s in New York City» [un incontro veramente sperimentale tra film, arte contemporanea e il rifiuto della cultura consumistica mainstream, in un periodo fertile come gli anni Sessanta a New York]. Come in altre occasioni, anche questa volta Haynes dimostra di essere affascinato dal rock in quanto sistema comunicativo complesso, in cui è proprio il bilanciamento mai equilibrato tra le sue componenti a rivelarsi centrale.
Sulla stessa linea, d’altronde, si allineava la scelta di raccontare la storia di Karen Carpenter (Superstar, 1987) attraverso l’animazione di una serie di Barbe modificate in ambientazioni da case-giocattolo, come satira dello stile di vita americano e delle convenzioni in cui la cantante è rimasta imprigionata fino all’ultimo. O l’affresco sui primi anni del glam-rock raccontati in Velvet Goldmine (1998), in cui nomi, episodi, copertine di dischi e spettacoli dal vivo sono rigorosamente falsi, ma chiaramente modellati su personaggi che raccontano meglio delle loro controparti reali il mito di cui si nutre la loro celebrità. Tema che ritorna ancora in I’m Not There, in cui Bob Dylan diventa personaggio multiplo, con nomi e storie diverse che ripercorrono le tante storie che compongono la narrazione allargata di quelle che Greil Marcus ha definito le sue “maschere”. Non resta che aspettare cosa ne sarà di questo documentario, ma soprattutto come Haynes saprà servirsi di questo genere, in cui il rapporto tra reale e finzionale assume una rilevanza critica, per raccontare un’altra storia di rock.
Foto di copertina: Todd Haynes