Il 12 dicembre 2017 si è aperta la stagione del Teatro dell’Opera di Roma con la Légende dramatique di Hector Berlioz La damnation de Faust, uno dei manifesti del romanticismo musicale europeo (1846). Non parliamo dello spettacolo prima dello spettacolo, pur assai interessante, avvenuto davanti al teatro e nel foyer, documentato d’altronde dalle televisioni nazionali. Il vero oggetto della serata può essere descritto da quattro punti di vista: quello dell’autore che compare scritto sul programma, Berlioz il grande assente; quello dei cantanti decisamente al di sopra di ogni critica; quello del direttore come sempre efficacissimo nell’ottenere ciò che ha in mente; quello della regia.
L’autore: la Damnation è un esperimento assai ambizioso, non un’opera ma un genere ibrido come piaceva ai grandi romantici (come Schumann e Liszt, Berlioz aspirava a inventare “nuovi generi” mescolando quelli convenzionali); ed è forse la musica più impegnativa, raffinata e memorabile che Berlioz abbia scritto. I personaggi sono affrontati dal compositore con differenze di carattere molto spiccate; e ciò accade perché Berlioz mira anzitutto a dimostrare un concetto filosofico: l’essenza dell’esistenza è conflitto, da cui non può liberarsi il debole Faust, e dal quale non può offrire alcuna redenzione l’eterno femmineo goethiano-dantesco di Marguerite, davanti alla forza inesauribile del serpente originario, qui magnificamente realizzato nella figura di Mefistofele. Per questo, divergendo dal dramma di Goethe, Mefistofele non è sconfitto, ma diviene un dionisiaco dominatore nel finale. Poiché l’essenza è il conflitto esistenziale, Berlioz costruisce tre personalità molto differenziate nel carattere, nella scrittura musicale, nel modo di fraseggiare ed episodicamente nella strumentazione. Dato questo testo, si può ora discutere la scelta del direttore d’orchestra.
Gatti è indiscutibilmente un grande direttore, con un dominio della partitura che non ha pari, e un controllo dell’intera compagine esecutiva fino al minimo particolare. Le idee interpretative sono ugualmente nette, decise, realizzate con una limpidezza e una qualità di altissima levatura. Il direttore dichiara di aver voluto asciugare, “lavorare per sottrazione” per rendere il canto “meno melodrammatico”. L’obiettivo era chiarissimo all’ascolto, realizzato con suprema maestria. Se personalmente si può dissentire, pensando invece a un Berlioz romantico che infrange ogni equilibrio, e richiede quindi l’opposto del controllo a favore invece di improvvisi sbilanciamenti, non si può che ammirare la coerenza del direttore. Talmente forte è la sua lettura, che emerge infatti più la sua personalità che non la distinzione fra i tre caratteri: il lirismo di Marguerite perde forse troppo in quest’operazione di sottrazione espressiva, così come le debolezze di Faust risultano musicalmente un poco trattenute, quasi “risanate”, mancanti della loro patologica introversione, e persino il “sublime terrifico” del “grande melanconico” Mefistofele perde qualcosa della sua furia dionisiaca.
Il Gatti grandissimo direttore ha avuto a disposizione tre cantanti di altissimo rilievo. Non stupisce che, al termine, il teatro si sia infiammato all’uscita di Alex Esposito, le cui doti vocali non sono seconde a quelle attoriali che, grazie al copioso impiego di steadycam, abbiamo ammirato nel minimo dettaglio. Le parti che Berlioz assegna ai tre protagonisti, già impervie per la loro inusuale conformazione compositiva, sono rese ancor più complesse da un’azione scenica che impone loro ad ogni momento di essere più attori che cantanti, di esprimere con il corpo ancor più che con la voce. E tutti i protagonisti hanno dominato le estreme difficoltà nel modo ideale. Le due sezioni solistiche di Marguerite meritano memoria.
Non c’è spazio per commentare il lavoro della coppia Fantin-Michieletto. L’eccellente scenografo e il regista non mettono più in scena un testo, ma ne creano uno nuovo, che reagisce deliberatamente contro il testo proveniente dalla storia. Questa tendenza è molto attuale e non ha nulla di scandaloso, non è né un errore né un arbitrio, ma una scelta pienamente attuale, fondata, meritevole di discussione: insomma è discutibile nel senso etimologico. Troppo facile sommergere una regia come questa di urli e fischi, com’è accaduto la sera della prima; ma troppo facile anche accettare tutto per il gusto di sentirsi attuali. I due pregiudizi si equivalgono e sono ugualmente inadeguati a un’operazione tanto ambiziosa. Un’intuizione degna di massimo interesse ed efficacissima quanto a immediatezza visiva è la divisione del palcoscenico, collocando il coro fermo per tutta l’opera in alto, come una cantoria di cattedrale che assista a una messa nera. Altrettanto potente il finale con il progressivo espandersi del color nero della notte del nulla, che poco alla volta copre ogni angolo del palcoscenico. La luce, che in Goethe come in Dante raffigura il superamento della dimensione umana verso la redenzione grazie all’eterno femmineo, qui diviene il nulla universale; è la melanconia del nulla che caratterizza Mefistofele, qui vincitore assoluto. Per questo la pallida luce del funerale finale deve suonare quasi fuori luogo. E questi sono i soli punti in cui una direzione d’orchestra dichiaratamente fredda e astratta è andata d’accordo con una “messinscena-ricreazione” estremamente agitata, convulsa, opposta alla olimpica ricerca di equilibrio.
Tirando le somme: da un lato un grande direttore d’orchestra che grazie a un superiore dominio della partitura ha lavorato “per sottrazione”, sfrondando l’esecuzione da eccessi e aggiunte ritenute inadeguate; dall’altro una regia che ha lavorato “per addizione”, riempiendo ogni scena di particolari e allusioni difficilmente dominabili dallo spettatore, distratto da un andirivieni continuo di personaggi che escono da porte e pareti scorrevoli, da proiezioni sullo schermo centrale, da rifrazioni dell’immagine dei protagonisti con ampio uso di steadycam, quasi un nuovo “teatro delle meraviglie”. Lo scarto fra ciò che si sente (la sottrazione) e ciò che si vede (l’addizione) sembra quindi una contraddizione non risolta di due principi interpretativi antitetici; e in questo contraddittorio (e irrisolto) rapporto ha origine probabilmente il punto debole di questa Damnation. Lo spettacolo esercita tuttavia una indiscutibile attrattiva e merita di essere visto almeno due volte, se non di più.
Se la finalità del teatro è stimolare discussioni, confronti, domande, e non semplicemente offrire un facile divertimento o una altrettanto superficiale commozione, nulla più di questa Damnation ha centrato l’obiettivo; e la scelta di eseguire le quattro parti senza interruzione sembrerebbe confermare questa intenzione coraggiosa e ammirevole. Dell’intelligenza del regista-divo Damiano Michieletto ho intenzionalmente parlato poco, perché non è corretto né esaltarla né denigrarla in poche parole: occorre leggere lo spettacolo scena per scena, individuare e distinguere momenti alti e momenti deboli e le diverse ragioni che motivano i giudizi. Si può dire, in estrema sintesi, che non è forse il suo lavoro migliore, ma ripeto occorre una discussione più articolata e soprattutto aliena da pregiudizi in negativo come in positivo, solo per il gusto di sentirsi attuali. In altra sede se ne potrà parlare con l’attenzione che merita.
Immagini Ph. Yasuko Kageyama