Teatro dell’Opera di Roma: Le nozze di Figaro firmate Vick

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Le Nozze di Figaro mancavano da più di dieci anni al Teatro dell’Opera di Roma, e il ritorno dell’opera buffa considerata da molti il capolavoro di Mozart non può che essere una bella notizia. Il lavoro costituisce il primo gioiello della trilogia italiana del librettista Lorenzo Da Ponte, con cui Mozart strinse un importante sodalizio umano ed artistico, musicando successivamente il Don Giovanni e Così fan tutte. La prima rappresentazione andò in scena al Burgtheater di Vienna nel maggio del 1786, in un momento storico molto delicato come spesso accade al cambio di secolo. Il sistema di potere monarchico che aveva sino a quel momento governato l’Europa alternando guerre e brevi periodi di pace, passato alla storia con il nome di Ancien Régime, si trovava sul punto di implodere. Da lì a qualche anno, la Rivoluzione francese avrebbe mescolato le carte nei rapporti sociali tra le classi e mutato gli equilibri dinastici, portando ad un nuovo protagonismo borghese e alla comparsa di idee repubblicane e giacobine all’interno dell’immobile scacchiere europeo.

Il mutamento stilistico e formale del teatro musicale settecentesco andò di pari passo con i grandi rivolgimenti storici: l’opera buffa, genere italiano con diffusione continentale, aveva raggiunto una fisionomia strutturata negli anni Quaranta del medesimo secolo, e con le opere di Mozart/Da Ponte acquistò una maturità tale da impedire ai grandi compositori venuti dopo (Rossini, Donizetti) qualsiasi passo indietro.

L’opera buffa costituiva di per sé un elemento perturbante nel placido universo teatrale di Antico Regime, che al dramma serio per musica, solenne ed aristocratico, aveva dato vita e sostegno. Con la rappresentazione del quotidiano, infatti, e con l’irresistibile comicità di personaggi di estrazione sociale bassa, essa portava sul palcoscenico il mondo reale, e le sue sfumature contradditorie che, ipocritamente, l’aristocrazia dominante tendeva a rimuovere. La fonte del libretto di Da Ponte rispondeva proprio a questo impulso realistico, e non poteva che essere guardata con torvo sospetto: Le Mariage de Figaro, seconda opera della trilogia teatrale di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, si conclude infatti con un nobile signore inginocchiato a chiedere perdono a sua moglie per le sue malefatte libertine. E non basta: la nobildonna, con l’aiuto dei suoi servitori plebei, ha ottenuto la definitiva abdicazione di un vetusto diritto feudale, lo ius primae noctis, che il Conte voleva esercitare con la novella sposa di Figaro, poiché ancora immerso nei confortanti privilegi di Antico Regime che stavano pian piano crollando. In questo contesto, l’opera di Mozart venne percepita come sovversiva, a dispetto della sua genialità teatrale.

Ma ciò che è veramente rivoluzionario nelle Nozze di Figaro è l’immissione, a livello drammaturgico, di un ritmo storico concreto e presente, che cavalca verso un futuro il cui orizzonte sociale non è ancora chiaramente definito. Se il tempo storico dell’Antico Regime, sempre uguale a sé stesso, sta lasciando il posto alla concreta esperienza sociale e culturale dell’uomo, l’opera buffa, con il suo ritmo drammatico travolgente, fatto di equivoci, inganni, colpi di scena, accumulazioni esplosive in fine d’atto, rappresenta la cartina di tornasole di questo mutamento. Le forme drammatiche non vengono ancora travolte nell’opera di Mozart, e i pezzi chiusi si alternano con regolarità ai recitativi, senza produrre uno scossone centripeto capace di modificare sostanzialmente la drammaturgia; allo stesso modo, il lieto fine non viene sacrificato. La perfezione delle architetture drammatiche, però, conferisce a questo lavoro il titolo di punto apicale nel suo genere, lasciando intravedere, come del resto in tutta l’opera di Mozart, i bagliori del futuro.

Nel nuovo allestimento andato in scena all’Opera di Roma, con la regia di Graham Vick, questa prospettiva, che qui sommessamente propongo, non risulta ben afferrata. Ognuno dei quattro atti, come vuole peraltro il libretto, si svolge in un unico ambiente, e la scena mostra pressoché immutato questo paesaggio domestico (solo nell’ultimo atto vi è un esterno, il giardino dove avvengono gli incontri clandestini del Conte con le sue amanti). Nel primo atto ci troviamo nella futura camera nuziale di Susanna e Figaro, dono del Conte, e un separé assai sottile lascia intendere come quella posizione sia strategica per un’intimità condivisa. Nel secondo atto, la camera da letto della Contessa risulta spoglia ed essenziale, con un braciere sospeso ed una pelle d’orso di dubbio gusto adagiata sul proscenio; ma il fondale dipinto mostra un enorme elefante imbizzarrito, che nella sua corsa frenetica manda in frantumi un muro, e con esso forse le certezze d’Ancien Régime di cui parlavo prima. Nel terzo atto ci troviamo in un salotto, e qui vengono al pettine tutti i nodi dell’ingarbugliata matassa creata da Beaumarchais, e genialmente ridotta da Da Ponte: Figaro viene portato di fronte al giudice, l’agnizione finale disvela le sue nobili origini, la Contessa organizza per il marito un falso appuntamento con Susanna, e infine si celebrano le nozze; adesso i personaggi si muovono tra le ingombranti zampe dell’elefante, che è prepotentemente entrato nella cristalleria del feudo.

L’ultimo atto, infine, si svolge nell’ambientazione oscura del giardino, luogo consono agli occultamenti e agli scambi di persona: qui la scenografia mostra le zampe d’elefante di prima, che diventano i nodosi alberi del piccolo parco, e delle inquietanti figure femminili crocifisse, precedenti trofei del Conte da esibire. Sebbene il sipario sia sempre sollevato prima dell’inizio di ogni atto (anche durante l’ouverture, quando il Conte preleva per il suo sollazzo una tra le tante inservienti dedite alla pulizia), dando così l’impressione che il tempo esterno sia entrato, per sconvolgere gli equilibri, nel plastico mondo feudale, la regia di Vick manca di dinamicità e risulta eccessivamente centripeta. I movimenti dei personaggi risultano scarsi o troppo convenzionali, e non bastano le qualità attoriali di alcuni interpreti per restituire quella fucina sbuffante che è il fulcro del grande teatro mozartiano: se aggiungiamo l’immobilismo statuario del coro, pur caratterizzato dai vivaci costumi di Samal Blak, l’atmosfera trepidante alla viglia della Rivoluzione sembra quasi scomparsa.

Alla coppia nobile sono andati gli applausi più convinti del pubblico, specialmente per le rispettive arie di furore e di dolore: nel ruolo del Conte, il baritono Alessandro Luongo, che nell’aria «Vedrò, mentr’io sospiro» ha unito padronanza di fraseggio e giusta caratura drammatica; molto calda e densa di sfumature la voce del soprano Valentina Varriale, giovane promessa del Teatro, sicuramente la migliore interprete della serata. L’aria che apre il secondo atto «Porgi, amor, qualche ristoro», simboleggia il forte valore psicologico e drammatico che Mozart accordava alle figure femminili del suo teatro, anche quelle maggiormente convenzionali. Nel ruolo del protagonista vi era Simone Del Savio, dal timbro levigato anche se poco penetrante. La maggior parte delle arie più famose dell’opera (l’indimenticabile «Non più andrai farfallone amoroso») è riservata a Figaro, e Del Savio le ha ben eseguite, seppur con qualche momento di scollatura con l’orchestra (colpa anche dei tempi molto veloci staccati dal direttore) e qualche goffaggine nei troppi slanci istrionici (salti e zompi nella famosa aria di scherno antiaristocratico, «Se vuol ballare, signor contino»). Molto versatile ed espressiva la voce di Benedetta Torre, nel ruolo di Susanna, che fino alla fine respinge con sdegno le lusinghe del Conte, pur cantando, nell’atto finale, una delle più dolci serenate della storia dell’opera.

Esplosivo ed esuberante Cherubino, l’ormonale adolescente che sta scoprendo le gioie (ed i dolori) dell’amore e della sensualità, interpretato dall’abile Reut Ventorero, a suo agio nella recitazione quanto nelle graziose diminuzioni apportate alle sezioni ripetute delle sue arie. Gli altri personaggi restano inevitabilmente nell’ombra anche a causa del sovraffollamento che l’intreccio drammatico dispone: nell’allestimento risulta tagliata, ed è un gran peccato, l’unica aria del curiale Don Basilio («In quegl’anni in cui val poco»). Essa viene dopo un recitativo secco dal sapore nettamente illuminista («l’accozzarla co’grandi / fu pericolo ognora / dan novanta per cento e han vinto ancora»), che rimanda subito alle proteste statunitensi di qualche anno fa, contro lo strapotere dell’1%.

La direzione dell’orchestra era affidata a Stefano Montanari, musicista completo e direttore dall’ampio curriculum che non necessita presentazioni: già alle prese con la trilogia mozartiana in tempi anche recenti, ha presentato al pubblico romano una lettura molto personale, attenta al connubio di parola e musica ma allo stesso tempo impetuosa e travolgente, forse in modo eccessivo in qualche momento. Accumulando le tensioni drammatiche verso gli snodi culminanti che si trovano sempre in chiusura d’atto (magistrale il finale secondo), Montanari ha guidato l’orchestra come un’onda, fino all’infrangersi finale, sempre controllato e mai sguaiato. L’orchestra si è distinta per il suono mozartiano, con un fraseggio pulito ed un buon equilibrio nelle dinamiche e nelle dialettiche timbriche.

Uscendo da teatro si è forse sentita la mancanza di quella sensazione briosa che solitamente si porta a casa dopo aver visto il capolavoro buffo di Mozart. Ciononostante, la sua musica slanciata verso un illuminato futuro ci ricorda come la storia dell’umanità sia fatta spesso di pesanti elefanti che irrompono in immobili cristallerie. Il suo teatro parla ancora una lingua a noi nota, specialmente nei tempi tristi che stiamo vivendo.

Immagine di copertina Ph. Yasuko Kageyama-Opera di Roma

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