Dieci anni da Zelig ovvero le infinite vie della classica

in News
  1. Home
  2. News
  3. Dieci anni da Zelig ovvero le infinite vie della classica

Nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, Nazzareno Carusi, pianista di fama internazionale, noto ai nostri lettori per i suoi cd dedicati a Scarlatti e Brahms, ricorda la sua partecipazione a Zelig dove è stato protagonista con Claudio Bisio e Vanessa Incontrada di uno sketch che fu l’inizio di una indimenticabile esperienza non solo musicale. Ecco la sua testimonianza e il video gentilmente concesso da Mediaset.

Il 20 ottobre del 2008 fui invitato da Canale 5 a Zelig. 

Improvvisai una gag con Claudio Bisio e Vanessa Incontrada e suonai una Sonata di Domenico Scarlatti. Gli ascolti furono alti e fece notizia che un pianista classico avesse partecipato a una trasmissione comica tanto popolare.

Il giorno dopo venni invitato per la prima volta a Mattino Cinque da Claudio Brachino e Barbara D’Urso.

Conoscevo Brachino. Era (ed è) il direttore di Videonews. Qualche mese prima avevo realizzato le nuove sigle del TgCom24 rielaborando con l’elettronica alcune battute di Beethoven, Prokofiev e Stravinskij, ma un imprevisto ne impedì la messa in onda per più di qualche giorno. E nello stesso periodo avevo registrato la sigla finale di Lucignolo col “Chiaro di luna” di Beethoven, che suonai su un pianoforte da concerto letteralmente in riva al mare di Ravenna. Fu una sorta di cortocircuito culturale, in un programma non proprio da educande come quello. Ma ottenne gli ascolti maggiori della sua stagione.

Così, dopo il successo di Zelig, con Brachino pensammo che fosse possibile una rubrica musicale per Mattino Cinque. La inaugurammo qualche mese dopo, la intitolammo Pillole di Classica e la tenni per due anni, anche ospitando giovani studenti di conservatorio e artisti del pop e del jazz.

Accadde dunque che il pubblico dei miei concerti – mi dicevano gli organizzatori – aumentava perché arrivavano soprattutto ragazzi mai venuti prima che volevano ascoltare il pianista di Zelig. E perfino Lucio Dalla mi invitò a tenere un recital nel festival che dirigeva a Benevento, in cartellone tra Francesco De Gregori e Cesare Cremonini.

Insomma, Zelig mi aveva dato una notorietà inusuale e io provavo a dare un contributo per dimostrare che la musica classica non è affatto priva d’interesse e pubblico più ampi di quelli che s’immagina.

Nei camerini di Mattino Cinque incontravo spesso Maurizio Belpietro. L’avevo conosciuto quando era direttore di Panorama e mi aveva fatto intervistare proprio per la mia partecipazione a Zelig. Nel tempo già trascorso era passato a dirigere Libero e decidemmo così di tenere una mia rubrica pure lì.

Scrissi moltissimo, non solo di musica, e non risparmiai giudizi anche veementi, ma sempre con nome e cognome mio e dei destinatari. In più di quattro anni ne ricevetti apprezzamenti e biasimi. Anche insulti. Fui minacciato, addirittura. Però da chi avevo additato tanto pubblicamente non arrivò mai un’autentica querela. Forse fu semplice fortuna, ma mi dicevano al giornale che questa illibatezza rappresentava un record.

Il mondo poteva naturalmente farne a meno. “Cui prodest?”, mi chiedevano gli amici e qualche volta mi chiedevo anch’io. Vero. Ma avrei potuto così dire ai miei figli d’aver provato almeno, seppure inutilmente, a cambiare un po’ di quell’Italia che loro troveranno e che probabilmente, siccome è ancora tale e quale se non peggio, lasceranno per andare via.

Passarono gli anni.

A inizio del 2015, quando Sergio Mattarella fu eletto Presidente della Repubblica, io criticai aspramente un’affermazione di Salvini a suo proposito, la vignetta di Benny che lo stesso Libero aveva pubblicato nell’occasione e la scheda bianca imposta da Berlusconi a Forza Italia per la votazione. Il pezzo venne giudicato “non in linea con la politica del giornale” e mi venne fatto dire che non sarebbe uscito. La risposta fu che da quel momento la mia collaborazione con Libero non era più in linea con la mia idea di libertà. Perciò presi cappello e me ne andai.

D’istinto, senza pensarci su, rastremai pure gli interventi per Panorama, TgCom24 e Il Giornale in versione Off per i quali anche avevo cominciato a scrivere.

Chiusi così un lustro di “giornalismo” (tra virgolette perché non volli mai prendere il tesserino nemmeno di pubblicista) che mi aveva dato anche molte gioie, delle quali la più intensa resta ancora quella d’aver firmato io il primo racconto sulla stampa nazionale del fenomeno di Beatrice Rana, allora ventenne medaglia d’argento al concorso Van Cliburn negli Stati Uniti e oggi stella venticinquenne tra le più giustamente amate del pianismo italiano in tutto il mondo.

Fu come accorgermi all’improvviso che lo scrivere con tanta frequenza stava diventando un vizio. Così, indipendentemente da quel singolo rifiuto, dopo anni di parole mi fermai: perché per essere un pianista – e quello ero – ne avevo scritte troppe.

Ripresi ad alternare i concerti alle lezioni in Accademia a Imola e in Conservatorio ad Adria. Poi il San Carlo, la Fenice, gli Incontri Asolani, la Verdi di Milano, Eleonora Buratto, Londra e la Wigmore Hall, i Solisti della Scala e di Santa Cecilia, il Teatro Ristori di Verona, il Coliseo di Buenos Aires, la nomina a Consigliere Artistico del Concorso “Busoni” di Bolzano, quella nei CdA dell’Orchestra della Toscana e di Rete Toscana Classica, e un titolo della Nación che di me disse “un pianista nel regno delle libertà”.

Anni belli. Fino al recital che avrei dovuto tenere per il Maggio Musicale Fiorentino di quest’anno e invece, inaspettatamente, le complicazioni di un’osteoporosi me l’hanno impedito e mi tengono ancora via dal pianoforte.

Nel decennio trascorso però, una fortuna sorridente aveva trasformato molti incontri casuali e non comuni in amicizie. Con Fedele Confalonieri e Riccardo Muti. I miei conterranei Natalino Irti e Gianni Letta. E Giulia Ambrosio, Emanuele Arciuli, Alessandro Banfi, Giorgio Battistelli, Fabrizio Bosso, Roberto Burioni, Claudio Brachino, Pietrangelo Buttafuoco, Davide Cabassi, Alberto Cassani, Cristiano Chiarot, Francesco Maria Colombo, Paola Colonnelli, Mauro Crippa, Ferruccio de Bortoli, Giorgio Dell’Arti, Dario Franceschini, Marco Tullio Giordana, Paolo Isotta, Renato Laurita, Sebastiano Lombardi, Mogol, Giorgio Mulé, Paolo Paltrinieri, Federico Pupo, Patrizio Romano, Davide Rondoni, Licia Ronzulli, Valter Santilli, Franco Scala, Mario Sechi, Vittorio Sgarbi, Andrea Soglio, Francesco Specchia, Paolo Tondo, Ortensio Zecchino…

Sono tanti e non sono tutti. Ma ripeto, ho avuto una fortuna sorridente dalla mia. E suonerà strano, riferito a qualcuno di loro, ma l’incrociarne le diversissime grandezze mi ha fatto nel tempo più pacato e riflessivo. Fosse accaduto prima, avrei forse evitato almeno due errori tra i tanti di quegli anni turbolenti.

Uno, lo colsi all’ascolto di un’opera nuova di Emanuele Casale, Conversazioni con Chomsky 2.0, che mi fulminò rivelandomi quanto lontano fossi dal vero nel credere che la musica vivesse solo di bellezza e non potesse, e non dovesse, avere alcun impegno. L’altro, lo commisi quando mi feci trascinare in una vandea insensata contro la nomina di Claudio Abbado a senatore a vita. Non ero mai stato tenero col grande direttore. Eppure, non di meno quella polemica fu una sciocchezza. Acqua passata, ma il pentimento resta.

Gli anni del silenzio, infine, mi rivelarono la politica essere un assetto del mio pensiero e non una sola passionaccia giovanile come avevo scritto, ventenne, ad Andreotti; e ho ancora la sua risposta su carta intestata del Senato.

Il gusto di non parlare troppo, continuando però a leggere e studiare, che provavo più acceso da quando avevo smesso d’intervenire frequentemente sulla stampa, mi aveva aperto alla ricerca di una consapevolezza più profonda dello Stato e le sue leggi, le sue istituzioni, i suoi poteri. Che è poi la lezione bellissima di Gianni Letta, la cui misura per l’Italia d’oggi ha tracciato Alessandro Aresu nel numero di Limes di settembre scorso.

L’impegno fu dunque inevitabile.

Invitato a dare la mia disponibilità, arrivai sul ciglio della candidatura in Parlamento alle elezioni scorse. I giornali mi indicavano candidato alla Camera per il Centrodestra nel collegio uninominale dell’Aquila. La notte prima della presentazione delle liste, mentre nelle sedi di partito succedeva l’impossibile, io dormivo in un hotel di Ariano Irpino dopo un concerto al “Biogem” con Eleonora Buratto. La mattina dopo, il mio nome era stato cancellato. L’accaduto mi venne raccontato in quelle stesse ore, dall’interno e per iscritto, e confermato a voce nelle settimane successive; ma non vale la pena ricordarlo. A chi me lo domandò allora, risposi solo che per sopraggiunte novità mi era stato chiesto un sacrificio e io l’avevo fatto.

Fu una decisione saggia.

Se oggi guardo indietro, riannodando i fili di ogni direzione presa negli ultimi dieci anni, fu quella sera a Zelig ad aprirmi strade mai pensate. E seguirne gli eclettici percorsi ha cambiato la mia vita e rivelato di me a me stesso più di quanto avessi mai intuito. Avevo quarant’anni, e disse Peguy che a quarant’anni diventiamo quel che siamo.

Poi a cinquanta, casomai, con quel che siamo diventati sistemiamo i conti.

Nazzareno Carusi

Immagine di copertina Ph. Emmepi / FARABOLAFOTO

Teatro dell’Opera di Roma: Le nozze di Figaro firmate Vick
Due veneziani in mostra: una rassegna per Giovanni Poli e Mischa Scandella

Potrebbe interessarti anche

Menu