«Suonare il pianoforte è come suonare le percussioni»: Alessandra Ammara

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Alessandra Ammara non appartiene alla specie dei musicisti assorti in se stessi, sempre chiusi nella loro stanza in cerca di una propria perfezione astratta, schivi all’incontro col prossimo.  La pratica del pianoforte non sembra essere, per lei, un esercizio d’isolamento e di lenta distillazione d’idee. Al contrario, Ammara è una musicista pienamente immersa nei flussi del mondo: il suo strumento, la pratica concertistica e anche il confronto con i colleghi e l’insegnamento sono per lei occasioni per esplorare la vita e i diversi piani della realtà. Il suo carattere è aperto, cordiale e schietto, spesso entusiasta, e lo si ritrova nel calore che trasmettono le sue esecuzioni.

La incontro la mattina dopo il concerto tenutosi all’Auditorium Pollini di Padova la sera del 27 Settembre nell’ambito del festival pianistico Bartolomeo Cristofori, in cui ha eseguito tre Sonate di Domenico Scarlatti (K32, K491 e K492), El Albaicín di Albéniz, Gaspard de la Nuit di Ravel e il secondo libro dei Préludes di Debussy. Si è svegliata presto e sta facendo lezione in Conservatorio: è solo un anno che insegna in questo istituto, ma sta già facendo le valigie, gli incarichi di insegnamento vanno e vengono in un tourbillon caotico, non danno modo di far progetti chiari. Tuttavia Ammara non sembra troppo stanca né preoccupata, e parla volentieri delle idee che l’hanno guidata nel decidere il programma del concerto che replicherà la sera stessa ad Adria.

“È un programma tenuto insieme da riferimenti extra-pianistici”, dice, “direi quasi etnomusicologici: in tutti i brani, infatti, c’è il tentativo di imitare, con il suono del pianoforte, i timbri e le movenze della musica popolare, ad esempio spagnola. A cominciare dalle Sonate di  Scarlatti, che sono tutte percorse da riferimenti al suono di altri strumenti: «quasi chitarra, quasi tromba». Un pensiero musicale che vuole spingersi oltre le possibilità del cembalo e perciò giustifica l’esecuzione di queste Sonate sul pianoforte. E così naturalmente in Albéniz, Ravel e in molti dei preludi di Debussy, per i quali l’esecuzione si fa sul pianoforte ma con pensiero costante all’orchestra”.

Come si prepara un programma di questo tipo?

“Per quanto mi riguarda, piuttosto che ascoltare molte esecuzioni diverse, preferisco dedicare il tempo a ricostruire le circostanze in cui quel brano è nato e ha preso forma: ricostruire la «scena del crimine», come dico ai miei allievi”. Sorride. “Pensiamo per esempio al retroterra fantastico che sta dietro alla musica di Debussy: a partire da lui si possono scoprire Mallarmé, Baudelaire, il teatro simbolista, le opere di Odilon Redon, di Monet, di Hokusai… Una volta presa familiarità in questo modo con il contesto del brano, procedo a studiarlo e per così dire a «orchestrarlo» al pianoforte: e questo è il lavoro più difficile perché occorre fare in modo che la musica si disponga su diversi piani timbrici, ma senza risultare artificiosa”.

Debussy è un autore che le interessa molto. Sta anche incidendo la sua opera completa per pianoforte. La preparazione dei brani per una registrazione è diversa da quella per l’esecuzione in concerto?

“Esatto, il primo CD è già uscito per Piano Classics. No, per me l’esecuzione dev’essere simile, altrettanto spontanea. E la registrazione dovrebbe cogliere un’esecuzione riuscita bene e fissarla, non creare un mostro con il taglia e cuci. Al massimo posso dire che in registrazione, essendoci la possibilità di ripetere, a volte sento di poter osare di più di quanto farei in concerto: ad esempio sul piano timbrico”.

La ricerca timbrica sul pianoforte sembra preoccuparla molto: l’ha mai portata a interessarsi alla musica contemporanea?

“Nell’ambito della musica contemporanea per esempio ho suonato i Saluti di Luca Lombardi, e soprattutto ho inciso i Preludi completi di Giacinto Scelsi, che in effetti sono stati una palestra timbrica notevole. Per questo li faccio anche suonare ai miei allievi, a volte. Anche il prossimo concerto che ho in programma, in Svezia, comprenderà un brano contemporaneo, di Carla Rebora.”

Le capita mai di cercare il parere di altri pianisti sul suo lavoro?

“Certo. A parte l’incontro-scontro con mio marito Roberto Prosseda, con il quale suono anche spesso in duo e a quattro mani, trovo spesso utilissimi i consigli dell’amico Enrico Pompili, eccellente pianista di Bolzano che meriterebbe una notorietà anche maggiore di quella che ha”.

Ha mai desiderato di suonare un altro strumento?

“Sì, tutti”. Ride. “Ma soprattutto le percussioni. Da quando ho suonato in orchestra ricordo un’attrazione fortissima per la sezione delle percussioni, ammassata là dietro tutti gli altri strumenti.  È il paese dei balocchi. E il pianoforte in realtà è uno strumento a percussione, ma molto spesso per suonarlo è necessario sforzarsi proprio per levargli il carattere percussivo: per farlo suonare come il vento, o come l’oboe o il violino. Nel suonare le percussioni il rapporto con la materia del suono dev’essere diverso, lo immagino molto meno mediato”.

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