Accademia Nazionale di Santa Cecilia: West Side Story

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Affrontare West Side Story richiede molta attenzione. Questa creatura ibrida, metà opera e metà musical, pone tanto a cantanti quanto a orchestra e direttore la sfida di mantenere coesione ed equilibrio nei vertiginosi ritmi drammatici e musicali che ne formano il tessuto stesso. Questa sfida, Antonio Pappano, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia l’hanno decisamente vinta, ma con qualche riserva.

Ad inaugurare la nuova stagione concertistica è stata la produzione di West Side Story in forma di concerto. La produzione si è svolta dal 12 al 14 ottobre presso Sala Santa Cecilia del Parco della Musica e la presente recensione si riferisce alla terza e ultima recita di questa “San Francisco Symphony Concert Version”. Una forma di concerto che lascia purtroppo un po’ insoddisfatti. Le «stringenti regole» per l’esecuzione di West Side Story e la scelta di adottare «interventi di regia molto asciutti e con il testo necessario solo all’introduzione dei singoli numeri», per citare le parole di Pappano, hanno infatti penalizzato il generale equilibrio dell’opera, sacrificando l’approfondimento di personaggi e situazioni per dare totale priorità alla musica. Il risultato è stato una via di mezzo tra la forma teatrale completa e le Danze Sinfoniche, fatto che ha sì permesso di apprezzare l’intera opera musicale incluse le canzoni assenti dalle Danze, ma che ne ha alterato il ritmo, giustapponendo con eccessiva fretta momenti scherzosi a momenti tragici. Questo senza che si riuscisse spesso a creare il giusto respiro drammatico e dunque perdendone anche sul versante musicale.

È stato il caso del finale, che da catartica conclusione si è trasformato in affrettata e decontestualizzata chiusura. Non è un problema per lo spettatore completare le parti mancanti conoscendo la trama, nonostante la forma di concerto segua la trama del musical e non del popolare film. Lo spettacolo in sé ne perde però di compiutezza e impatto espressivo, e questo nonostante il riuscito tentativo di unire la forma di concerto ad una forma scenica.  Su un palco ben studiato, infatti, si fronteggiavano Jets e Sharks, rappresentati da due sezioni del coro maschile; in mezzo l’orchestra e dietro di essa il coro femminile. Tra orchestra e coro è stato ricavato uno spazio essenziale ma funzionale, dedicato ai movimenti scenici ed i dialoghi tra i cantanti.

Il cast è stato eccellente, a partire dal soprano americano Nadine Sierra, una splendida Maria, dolce e delicata e al contempo solida e decisa, soprattutto nel registro medio e acuto. Vero protagonista è stato però Alek Shrader (Tony), forse il migliore nell’alternare l’approccio vocale operistico alla limpida cantabilità del musical, riuscendo perfettamente anche nella caratterizzazione del giovane ed entusiasta co-fondatore dei Jets. Notevole Tia Architto, che ha reso un’Anita forte e volitiva, con timbro scuro e disinvolta presenza scenica, anche se a tratti in difficoltà nel registro più acuto e nei fortissimo orchestrali. Ottimi anche Andrea Giovannini e Kris Belligh, nei panni di Action, Baby John e gli altri membri della gang: a loro si è dovuto uno splendido Gee, Officer Krupke che si è avvalso dell’intervento di Antonio Pappano stesso, con fischietto e cappello d’ordinanza. Bene gli altri, con particolare merito per Aigul Akhmetshina (Rosalia e Ragazza), un po’ in difficoltà nel rispondere ad Anita in America, ma palesemente più a suo agio in Somewhere. Buona anche la prova del coro, soprattutto femminile, che ha anche risposto bene alla inusuale performance.

Come si può intendere, la parte attoriale è stata secondaria rispetto a quella vocale, ma vanno comunque lodati solisti e coristi per aver saputo creare una stilizzata dimensione di spettacolo, coadiuvati anche dall’ottimo uso delle luci. Efficaci anche gli interventi in piedi degli ottoni in stile brass band, mentre meno riusciti quelli degli archi, un po’ impacciati nonostante (o forse proprio per) gli abiti alternativi e il contesto atipico. L’orchestra si è dimostrata peraltro pienamente all’altezza della vorticosa partitura: dopo un po’ di timidezza iniziale, la compagine ha fatto sentire le sue qualità con gagliardo carattere, sezioni compatte e ottime prove delle sue prime parti. Una menzione va fatta a ottoni e percussioni, protagonisti del palcoscenico, che hanno saputo trascinare la gremita platea in un universo sonoro fresco e coinvolgente.

La direzione di Pappano è stata forte, energica, vitale e ha saputo ben bilanciare lo slancio generale con il sorprendente dettaglio timbrico. Meno riusciti invece gli equilibri generali: sia interni all’orchestra, con legni a volte in sordina anche quando dovevano emergere con più chiarezza, sia con i cantanti, spesso ostacolati da un’amplificazione di complicatissima realizzazione.

D’altronde è questa la menzionata sfida di West Side Story: unire il musical all’opera, il jazz a Beethoven, trasformare il tutto in un linguaggio nuovo e intrinsecamente coerente, quindi, per dirla ancora con le parole di Pappano, lanciarlo sui binari a duecento chilometri orari. Un’energia che si è percepita per tutta l’esecuzione, dall’espansività travolgente del Mambo all’intensa espressività di Maria.

Immagine Ph. Musacchio Ianniello

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