#Storytelling Bonn 1835-1845: un Monumento per Beethoven

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In una fase storica che mette in discussione i simulacri e problematizza le raffigurazioni del proprio passato, giova forse ricordare che icone e rappresentazioni simboliche hanno sovente contribuito, nella storia della musica, a plasmare nell’immaginario dei posteri determinate figure di compositori e interpreti.

A ben guardare, chissà quale tra i lati più oscuri del carattere di Beethoven – burbero, misantropo, opprimente precettore del nipote Karl, ossessionato dai rapporti con l’universo femminile – risulterebbe oggi maggiormente intollerabile agli sciovinisti del “politicamente corretto”. Fortunatamente, pare che per il momento i compositori non siano caduti nel vortice giustizialista che ha travolto altri illustri – da Cristoforo Colombo a Baden-Powell, da Winston Churchill alla Vergine di Częstochowa (l’appellativo di “Madonna nera” evidentemente non è bastato a risparmiarla): al contrario, il simulacro del genio di Bonn (ritratto nella foto) troneggia ancora impavido nella sua città natale in Münsterplatz, godendo per cosi dire “di ottima stima”, a giudicare dal numero di visitatori che, nonostante le restrizioni degli ultimi mesi, ci si aspetta renderanno omaggio per il 250° anniversario del compositore presso la casa natìa e i luoghi dedicati alla sua memoria.

La storia dell’iconografia beethoveniana (rispetto a cui un interessantissimo ed esaustivo approfondimento è offerto da Massimo Rolando Zegna nel n. 362 di Amadeus dello scorso gennaio, reperibile a questo link) certo non inizia con il monumento eretto nella piazza centrale della sua città natale quindici anni dopo la sua scomparsa. Questo rappresenta piuttosto il primo di una lunghissima storia di tributi pubblicamente versati a Beethoven da altri musicisti, e non solo.

In verità, l’istanza per la costruzione di un monumento celebrativo dedicato al compositore era stata espressa, fin dal 1828, da Carl Heinrich Breidenstein (1796–1876), titolare dal 1823 della neo-nata cattedra di musicologia presso l’Università di Bonn. La proposta fu sul momento accantonata a causa di una sopraggiunta ondata di colera, per essere poi entusiasticamente ripresa, qualche anno più tardi, niente meno che da August Wilhelm von Schlegel, presidente di un’associazione appositamente istituita allo scopo (del resto, è proverbiale la germanica tendenza all’associazionismo: “ein Deutscher, ein Bier; zwei Deutscher, ein Verein”).

Nel 1835 il comitato lanciò una sottoscrizione: ma nonostante il sostegno di teste coronate come Ludwig I di Baviera, e di future tali come Friedrich Wilhelm IV, erede al trono di Prussia, la campagna non riscosse immediato successo. Quattro anni più tardi, secondo un resoconto sulla stampa dell’epoca, che istruiva i lettori circa le somme versate da ciascun paese, risultava che dalla Francia fossero arrivati appena 424 franchi e 90 centesimi. La miserabile somma sollevò l’indignazione di Franz Liszt che, oltre a scrivere all’amico Berlioz dolendosi di tale «vile elemosina» da parte dei suoi compatrioti e sollecitando la sua collaborazione, divenne lui stesso principale attivista della causa beethoveniana, non limitandosi solamente a una donazione di 10.000 franchi e alla copertura, sempre di sua tasca, dei costi della sala per l’inaugurazione, edificata in tempi record, ma soprattutto impegnandosi in una serie di concerti per la raccolta di ulteriori fondi.

L’unica condizione posta dal compositore, allora ventisettenne, era che dell’opera – marmorea, nelle intenzioni del nostro – fosse incaricato lo scultore fiorentino Lorenzo Bartolini, artista cui lo stesso Liszt aveva affidato la realizzazione del suo busto l’anno precedente, ritenendolo «il primo scultore d’Italia». Il comitato di Bonn accolse felicemente la donazione del compositore “straniero”, ma riuscì ad eludere la condizionalità sullo scultore “non tedesco”, sottolineando come una statua bronzea, dal costo analogo, sarebbe risultata più resistente alle intemperie, e probabilmente confidando in un Bartolini poco incline a passare mesi in fonderia. La scelta ricadde cosi, per concorso, su un semisconosciuto artista tedesco: Ernst Julius Hähnel (1811–1891).

Nel frattempo, però, la “Beethoven-mania” era scoppiata, e mentre Liszt intraprendeva infaticabile tournées europee, guadagnandosi il titolo di “patrono di Beethoven” e fermandosi appena qualche istante per posare nel famoso ritratto di Josef Danhauser, che lo immortala al pianoforte in contemplazione del mito (una sorta di “selfie with celebrities” ante litteram), altri artisti si lanciavano in concerti e iniziative di fund raising. Per la precisione, già dal 1836 Robert Schumann aveva invitato il suo editore a destinare i proventi derivanti dalla pubblicazione della sua Phantasie op. 17 alla costruzione del monumento di Bonn (la composizione infatti originariamente titolava Obolen auf Beethovens Monument: Ruinen, Trophäen, Palmen, Grosse Sonate f .d. Pianof. Für Beethovens Denkmal). Ma i rifiuti da parte degli editori interpellati (Kirstner e Haslinger), dilazionarono la pubblicazione fino al 1839, quando Breitkopf & Härtel finalmente diede alle stampe il lavoro, privo di sottotitolo, ma con dedica a Franz Liszt.

 

Josef Danhauser, Franz Liszt Fantasizing at the Piano (1840)
Franz Liszt suona in un salone parigino un pianoforte Graf, committente del dipinto; contemplando il busto di Ludwig van Beethoven di Anton Dietrich, seduti intorno a Liszt Alexandre Dumas padre, George Sand, Marie d'Agoult; in piedi Hector Berlioz o Victor Hugo, Niccolò Paganini, Gioachino Rossini; sullo sfondo un ritratto di Byron e a sinistra una statua di Giovanna d'Arco.

D’altra parte, nel 1841, la necessità di una celebrazione postuma del 75° genetliaco di Beethoven era stata condivisa e sostenuta da molti altri compositori, aderendo all’iniziativa dell’editore Pietro Mechetti (lucchese di origine, viennese d’adozione) di pubblicare un album miscellaneo, le cui vendite sarebbero state devolute per la nobile causa. Tra loro, figuravano musicisti del calibro di Mendelssohn, Chopin e ovviamente Liszt, ma anche altri la cui memoria è andata perdendosi nel tempo – come Henselt, Döhler, Taubert – e infine compositori la cui fama è oggi per lo più legata alla trattatistica e ai metodi per pianoforte: Czerny, Kalkbrenner, Moscheles, Thalberg. Del resto, Pietro Mechetti, prima collaboratore e poi erede dell’attività fondata dallo zio Carlo, aveva all’epoca già curato edizioni di diversi tra i compositori citati, oltre alla prima edizione della Polonaise op. 89 di Beethoven, alle nuove edizioni delle Sonate per pianoforte op.10 e 13 e di svariati arrangiamenti beethoveniani.

Occorre sottolineare che simili iniziative erano state intraprese anche per altri compositori: un Mozart-Album, ad esempio, «zum Besten des Mozart-Denkmals», era apparso nel 1842 per i tipi di J. P. Spehr. A differenza dell’antologia beethoveniana, però, che includeva esclusivamente brani per pianoforte solo, nel caso di Mozart si trattava una raccolta comprendente anche Lieder per voce accompagnata.  Non stupisce d’altronde che tutti i dieci compositori citati fossero anche pianisti virtuosi: verso la metà del XIX secolo, il pianoforte, che proprio sotto le dita di Beethoven era stato interessato da una serie di innovazioni meccaniche e sperimentazioni costruttive, era ormai divenuto il principe indiscusso dell’età romantica.

A questo link è possibile sfogliare il Beethoven-Album.

Il frontespizio dell’antologia riportava illustrazioni, dovute a J.N. Geiger, di un monumento a Beethoven, in verità piuttosto dissimile dalla realizzazione finale, oltre a disegni della casa natale del compositore (la Schwarzspanierhaus a Vienna, dove morì nel 1827) e della sua lapide.  Venendo all’indice, l’album conteneva appunto una trascrizione di Liszt dallaTerza Sinfonia (Marche funèbre de la Symphonic héroique)il Prélude in do diesis minore op. 45 di Chopin, dedicato alla Principessa Elisabeth Czernicheff,  il Nocturne in mi bemolle maggiore op. 647 di Czerny, Deux Impromptus Fugitives di Theodor Döhler (n. 1 in sol maggiore e n. 2 in sol minore op. 39 “Tarantella”), il “Wiegenlied“ in sol bemolle maggiore op. 13 n. 1 di Adolf Henselt“L’Echo!“ Scherzo brillante in do minore di Frederic KalkbrennerDeux Etudes: n. 1 in fa maggiore e n. 2 in re minore op. 105 di Ignaz Moscheles, la Fantasie in si bemolle maggiore op. 54 di Wilhelm Taubert, e la “Romance sans paroles“ in sol minore op. 41 n. 1 di Sigismund Thalberg. Tra queste, però, una composizione spiccava di gran lunga per rilevanza artistica, come già riconosciuto nell’Allgemeine musikalische Zeitung e la Neue Zeitschrift für Musik: si tratta delle Variations sérieuses in re minore op. 54 di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Tra notturni, improvvisi e preludi inclusi nell’album, le Variations sono l’unico componimento rimasto ancora oggi stabilmente nei repertori concertistici, quale indiscusso capolavoro pianistico mendelssohniano dalla forma classica e la connotazione romantica.

Perché Variations? E soprattutto, perché sérieuse? Il primo quesito lascia intravedere una risposta piuttosto ovvia: il Tema con variazioni, al pari della Sonata, era un genere in cui la capacità creativa ed elaborativa di Beethoven aveva trovato la sua piena e più propria manifestazione; d’altra parte, a differenza della Sonata, le variazioni rappresentano una composizione meno lunga e strutturata, adatta ad essere inserita in una raccolta miscellanea a fianco di altri lavori. Sulla caratterizzazione che Mendelssohn attribuisce alla sua opera – in maniera convinta, come appare già in una lettera del 31 luglio 1841, dove per la prima volta è citato il titolo – due ragioni complementari possono essere addotte: da un lato, l’intento severo ed encomiastico potrebbe indurre a ritenere sérieus il contrario di faceto. Dall’altro, sérieus suona anche come l’opposto di à la mode, cioè scevro da quel virtuosismo superficiale e pirotecnico che permeava la scrittura pianistica di molti compositori di area germanofona negli anni ’30 e ’40 dell’800, sotto il nome di stile Biedermeier, alcuni inclusi anche nell’album pubblicato da Mechetti. Anche la severa tonalità di re minore, e il suo trattamento estremamente cromatico sin dall’esposizione del tema, introducono ad un’atmosfera singolarmente beethoveniana e bachiana.

Ad ogni modo, il ricavato dalle vendite dell’album beethoveniano, circa 1.300 talleri, andò a sommarsi alla somma accumulatasi in quasi dieci anni di donazioni, sottoscrizioni, concerti e pubblicazioni e il 12 agosto 1845 il monumento a Beethoven fu infine inaugurato, alla presenza di molti dei suoi promotori, con tre giorni di concerti. Wilhelm Schlegel non visse abbastanza per vedere l’opera conclusa, essendo venuto a mancare esattamente tre mesi prima, il 12 maggio: ma, grazie all’indomito fervore e alla sincera sollecitudine del giovane Liszt, il gigante di Bonn domina ancora la piazza centrale della città che gli diede i natali, e sopravvive, oltre che nel suo immenso lascito musicale, nel rapporto dialettico con i suoi eredi.

 

Silvia Del Zoppo

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