Steven Spielberg, the dream maker

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La musica ha percorso la vita e il cinema di Steven Spielberg. Un’intervista esclusiva al regista statunitense tra pubblico e privato. Da Schumann, Britten e Profok’ev a John Williams, dallo Squalo a Schindler’s List, ecco i suoi compositori preferiti

Steven Spielberg

Una volta ai piani alti di Hollywood e dell’intellighenzia americana non lo prendevano sul serio. Il fabbricante di sogni Steven Spielberg sul grande schermo ci ha mostrato un ragazzino che vola sulla bicicletta con la luna sullo sfondo. È’ l’artista tutto istinto che incanta, spaventa, diverte. E usa gli effetti speciali, che sia un alieno o un’astronave, al servizio della narrazione, in un senso dinamico della regia.

Francis Ford Coppola lo ha paragonato a Gershwin, per il modo in cui combina film commerciali e arte: «Steven Spielberg è in grado di realizzare uno spettacolo di Broadway e poi compone il Concerto in fa, è in grado di fare entrambe le cose». Ma che cosa rappresenta la musica nella vita del grande regista americano, tre volte premio Oscar?

Partiamo dal suo capolavoro: al contrario di quanto avviene in tante sue colonne sonore esuberanti, in Schindler’s List c’è una musica essenziale.

«Il compositore è sempre John Williams e, sì, ha ragione. C’è musica sinfonica, ci sono gli assoli al violino di Itzhal Perlman, che confluiscono in Auschwitz-Birkenau, una dissonanza ipnotica che riflette la disperazione dei campi di concentramento, c’è una canzone popolare Yiddish intitolata Sul cuore. Jewish Town invece è una sorta di lamento che accompagna i lavoratori della fabbrica di Schindler, il bon vivant che salvò 1.100 ebrei.

La scelta è stata quella di avvicinarsi all’orrore dell’Olocausto, rievocarne il dolore con semplicità. Volevo dare una dimensione umana all’inumano. Per alcuni è la migliore colonna sonora di John, che al cinema ha vinto cinque premi Oscar ed è il mio più antico collaboratore».

Quello è anche un film di silenzi.

«Niente trucchi e effetti speciali, giravamo in un territorio sacro, nei luoghi reali dell’Olocausto. Il set era un caos organizzato, irripetibile, indimenticabile. Ho aspettato dieci anni prima di girarlo, non mi sentivo pronto. Non ho voluto compensi, ho fondato una Fondazione che è un modo per ascoltare tutte le storie dei sopravvissuti che abbiamo perso. L’eredità che mi ha lasciato quel film è incredibile».

C’è un suo film in cui la musica diventa protagonista, assume il peso di uno snodo drammaturgico?

«Forse il mio primo successo commerciale: Lo squalo. La sceneggiatura non era definita. Sapevo che dovevamo girare per 55 giorni in mare, e questi giorni si triplicarono. In genere un film sull’acqua lo si fa in un lago, o in una grande vasca. Io volevo realizzarlo in mare aperto. Era una storia su persone normali fuori dal loro elemento, in lotta con qualcosa che non sanno assolutamente come affrontare. Avevo bisogno di autenticità. Non c’era altra soluzione che andare nell’Oceano.

Ci ritrovammo a dodici miglia dalla costa. La prima volta che provammo lo squalo ricostruito, affondò. Allora ebbi l’idea dei barili, che dovevano simularlo. Non c’era bisogno di mostrare lo squalo, d’altra parte non c’erano tante scene che lo prevedevano. John Williams scrisse poche fondamentali note percussive, dam-dam-dam, creavano un effetto di suspence. Un po’ come faceva Hitchcock, che non ti fa mai vedere quello che si vuole vedere.

Quelle note danno la percezione della presenza dello squalo. Lo spettatore è divorato dall’ansia, senza che veda la minaccia. Ho una curiopsità su quel film. Dicevano che sul set ero tremendo, così lo lasciai all’ultimo giorno di riprese. Il film incassò moltissimo, sono superstizioso e ripetei la sparizione per Incontri ravvicinati del terzo tipo. Altro successo. La stessa cosa feci per 1941, che fu un flop. Da allora resto sul set fino all’ultimo».

Un giovanissimo Steven Spielberg

Lei non utilizza spesso musica sinfonica classica.

«In Minority Report, nella scena in cui Tom Cruise rientra a casa avevo bisogno di una musica distensiva e ho messo il secondo movimento della Patetica di Čajkovskij; durante l’analisi delle immagini sulle capacità preveggenti dei Precogs c’è l’Adagio dell’Incompiuta di Schubert».

Il suo ultimo film, Ready Player One, ambientato nel 2045, dove costruisce il suo Luna Park, contiene riferimenti agli anni ’80 anche musicali.

«Mi piace definirlo una favola che ammonisce. Ho creato un universo parallelo, una realtà virtuale non così lontana dal mondo che viviamo. Adoro la musica pop di quell’epoca. Da ragazzino ero un nerd: non mi drogavo, non facevo sport e non ascoltavo il rock’n’roll. Io sono goffo e timido, come tanti protagonisti dei miei film, che alla fine trovano coraggio. Mi identifico in loro, sono un antesignano dei nerd, all’epoca non ero popolare, oggi tutti vogliono entrare nel mio club».

Da adolescente è stato vittima di bullismo?

«Beh, a scuola mi prendevano di mira. Ho frequentato la scuola ebraica, ma ho vissuto in quartieri dove non c’erano ebrei. Sono stato emarginato, discriminato. Non volevo essere ebreo, ci rendeva diversi dagli altri. Cominciai a negare di esserlo, mi vergognavo di me stesso. Mi sono riconciliato con l’ebraismo grazie a Schindler’s List».

Quando era giovane, la musica faceva parte della sua vita?

«Mia madre Leah suonava il pianoforte, uno dei momenti dolorosi che hanno attraversato la mia vita fu quando lo spartito di un pezzo di Schumann che stava suonando si riempì di lacrime. Piangeva, si stava separando da mio padre. Lui non era abituato a parlare ai figli, a lasciarsi andare sui sentimenti. Io diedi la colpa a lui, per tanti anni non volli rivolgergli la parola, pensavo che avesse distrutto la nostra famiglia. La verità è che mia madre si era innamorata del migliore amico di mio padre. Lo sposò. Più tardi mi disse che pensava solo a se stessa e alla sua infelicità. Dopo molto tempo si riappacificò con mio padre».

Nei suoi film, si rincorrono scene di separazioni e lacerazioni familiari.

«I film sono stati la mia terapia. Il padre assente mi ha tormentato per l’intera esistenza. In tanti progetti parlo di ciò che si perde e si ritrova, di separazioni e riunificazioni, anche in Lincoln! E.T. all’inizio era un film su come il divorzio influenzi i bambini. Mi chiesi come riempire il cuore di un bambino solitario che aveva perso il padre. Non era previsto un extraterrestre. Ho rivisto la mia infanzia in quella famiglia. Anche quando si esplorano scenari ultraterreni, alla base ci sono esseri umani e storie umane».

C’è un compositore che rispecchia il suo modo di osservare la realtà?

«Io guardo il mondo attraverso gli occhi dell’innocenza, parto da bambini infelici che diventano forti e prendono il controllo della situazione. Il mio immaginario si nutre di bambini e di paura, l’adolescenza e l’incubo. Dunque il primo nome che mi viene in mente è Benjamin Britten».

Britten è il suo compositore preferito?

«No, ne indicherei tre: Prokof’ev, le cui corse selvagge e vorticose mi ricordano Ready Player One; Stravinsky, perché è un musicista che, come Picasso, ti spiazza, ha tante identità e fisionomie, e anch’io cerco di passare da un genere all’altro. E Copland, uno dei padri del Novecento americano».

A proposito di padri nobili della musica americana. È vero che Steven Spielberg girerà un film su Leonard Bernstein?

«Su Internet mi attribuiscono di tutto. No, hanno fatto il mio nome perché quel film lo ha scritto lo sceneggiatore del mio film The Post, Josh Singer, che di Bernstein fu amico».

I suoi amici dei primi giorni sono Lukas, Coppola, Scorsese, De Palma.

«Negli anni ’60 Hollywood si aprì ai giovani registi. Sembravamo una confraternita. Eravamo un gruppo di pazzi smaniosi di fare film. Ci sentivamo gli imbucati alla festa. Non pensavamo che avremmo guadagnato dal cinema».

Lei ha detto di amare il cinema italiano.

«In un momento in cui si costruiscono muri, vorrei ricordare che Vincente Minnelli, Frank Capra, Francis Ford Coppola, Brian De Palma, Martin Scorsese, Quentin Tarantino… Il vostro sangue è entrato nel cinema americano, lo ha nutrito. Sono cresciuto col cinema italiano, De Sica, Rossellini; andai sul set di Zabriskie Point di Antonioni nel deserto della California. Nel mio ufficio ho una foto in cui sono accanto a Fellini. Ero a Roma per promuovere Duel, il mio debutto. Era il mio primo viaggio fuori dagli Stati Uniti.

A Federico piacque molto. mi fece fare un giro per Roma in auto; mi disse che è importante intrattenere il pubblico, ma è ancora più importante intrattenere se stessi. Mi stava dicendo che per conquistare il pubblico, bisogna prima di tutto essere il pubblico. Quel consiglio non l’ho mai dimenticato. Appena troverò il volto giusto di un bambino di sei anni, girerò a Roma il film su Edgardo Mortara, il piccolo ebreo che nel 1858, durante il Risorgimento, fu allontanato da una famiglia di Bologna per essere cresciuto da cattolico».

Steven Spielberg, come ha scoperto il cinema?

«Con Lawrence d’Arabia, c’è una sequenza memorabile in cui guarda il pugnale accanto a Omar Sharif, senza dire una parola. Rividi il film dopo pochi giorni. Capii che non potevo tornare indietro. Quella sarebbe stata la mia vita. La prima cinepresa me la regalò mio padre. Vivevamo come bohémien nella periferia di Phoenix, papà era un genio dei computer, mamma era Peter Pan al femminile, si metteva nei guai come noi figli, un giorno si presentò in casa con una scimmia sulla spalla. C’erano solo i cactus ma lì appresi le basi del mestiere. Volevo che la mia infanzia fosse un’utopia.

Ero un bambino solitario. Il cinema rappresentava una via di fuga. Le scuole del settore mi rifiutarono. La mia scuola furono gli studi della Universal: mi intrufolai e riuscii a non farmi cacciare. Ero una sorta di Fantasma dell’Opera. Ecco, questa parola finalmente l’ho pronunciata. Però io sono uno da Sinfonie».

di Valerio Cappelli

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