Ogni mese un critico racconta un capolavoro e le sue incisioni più belle. Ecco il Concerto per violino op. 14 di Samuel Barber ascoltato da Alberto Cantù
Quello di Samuel Barber (1910-1981) è, fra gli esigui Concerti per violino americani del Novecento, l’unico che aspira al repertorio pur senza esservi mai entrato con agio. L’allievo di Rosario Scalero a Filadelfia, compositore precoce e sùbito premiato da successo e riconoscimenti, lo scrive nel 1939. Tre anni dopo un Quartetto il cui Adagio, allargato per orchestra d’archi, viene tenuto a battesimo da Toscanini.
È l’opera di Barber più universalmente nota
Quella il cui doloroso, macerato narrare sarà commento ideale del film The elephant man. Il Concerto, commissionato da un ricco mecenate – storie americane – per un giovane violinista prodigio suo protetto, non piacerà però al destinatario; il committente riterrà i primi due movimenti troppo facili e il terzo troppo difficile.
Barber dovrà rinunciare a metà cachet e il violinista all’intero Concerto. Verrà battezzato nel 1941 da Albert Spalding con la Philadelphia orchestra, direttore Eugène Ormandy.
La struttura
È in effetti notevole lo scarto stilistico e di difficoltà tecniche del Finale rispetto agli altri tempi. I primi due rispecchiano la fase cosiddetta neoromantica di Barber con melodie ad ampio respiro e armonie consonanti. Il Presto in moto perpetuo conclusivo è d’un Barber che farà sue dissonanza, politonalità e mordere di ritmi sghembi come appunto qui.
L’Allegro ha un’entrata tematica del violino, senza introduzione orchestrale, su un romantico arpeggio del pianoforte come in una Sonata. A tale tema, cantabile ed “espressivo”, ne segue un secondo cullante, di competenza quasi esclusiva dell’orchestra, tenera e ripiegata. Il movimento vede un’infallibile intensificazione emotiva del primo tema tra variazioni, ripetizioni ad accumulo e controcanti d’orchestra.
L’Andante, dove c’è qualcosa del celebre Adagio, muove dall’oboe con una malinconica quasi salmodia di colore autunnale che si accende – altro procedimento infallibile – per esplodere sentimentalmente.
Le migliori registrazioni
La relativa fortuna del Concerto per violino di Samuel Barber, di fronte al pubblico come in sala d’incisione, dipende dalla difformità fra i primi due movimenti e il Finale di cui s’è detto. Ovvero, da subito, problema per la circolazione d’un lavoro che pare “in cerca d’interprete”.
La versione di Isaac Stern
Per anni, la lettura di riferimento anzi l’interpretazione su disco dell’op.14 di Samuel Barber è stata quella, oggi su etichetta Sony, di Isaac Stern; c’era un lirico, emozionato ed emozionante Leonard Bernstein alla testa della New York Philarmonic, ideale per questa partitura. La comunicazione diretta, tesa eppure spontanea, sorgiva ma con un retrogusto nostalgico di Stern, brillava nell’Allegro e nell’Andante nel rievocare fantasmi del XIX secolo. Solo col senno di poi, il Moto perpetuo finale poteva risultare più Allegro che Presto.
Non dico come i violinisti relativamente dotati che al diploma portano questo Concerto, difficile, appunto, solo nel terzo tempo dove si arrangiano allargando. Non come loro: ma Presto, no. D’altra parte, grande musicista, Stern virtuoso non era. Aveva mani piccole e Paganini e le decime lo mettevano a disagio.
Gil Shaham
Trent’anni dopo, a metà degli anni Novanta, a contrastare il primato indiscusso di Stern arrivò Gil Shaham nel pieno di mezzi e gloria con un disco Dg. Emissione che appaiava al lavoro quello “per Heifetz” di Korngold: il Concerto in re maggiore op.35. Sul podio della London Symphony, adamantina, André Previn, l’eclettico “americano”.
Shaham, l’uomo violino, non aveva problemi in Korngold a gareggiare con Heifetz; tantomeno a suonare Presto e in modo immacolato il movimento finale di Barber. Non li aveva nemmeno a partecipare l’emozione a fior di pelle dei primi due movimenti, appunto da violinista nato e iperdotato se non con quella capacità di centrare il cuore d’un componimento che era di Stern e di lui solo. Ad ogni modo, decenni dopo, le letture dei due violinisti non hanno preso una ruga.