Gioele Dix si racconta, tra progetti (lo spettacolo 30per100) e ricordi: un palco alla Scala, Schubert, Rossini… E le Variazioni Goldberg, nel segno di Bach e di un amico che non c’è più
Un volto ben definito, dall’espressione riflessiva e un po’ beffarda, contornato da riccioli ormai bianchi: Gioele Dix, che in passato il pubblico televisivo ha conosciuto nei personaggi comici di trasmissioni come Zelig, è diventato Borges, il grande poeta cieco, in un testo teatrale di grande impatto emotivo, Cita a ciegas (Appuntamento al buio) prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, che ha avuto un gran successo nella prima parte dell’anno. Ma, si sa, quando manca un senso, gli altri si esaltano.
Una realtà, ma anche una metafora per Dix (all’anagrafe Davide Ottolenghi) che nell’ascolto della musica ha avuto la possibilità di affinare i suoi gusti. Ed ecco che nei prossimi mesi sarà protagonista, con il pianista Ramin Bahrami, di un nuovo spettacolo, 30per100.
«Trenta», spiega, «sono le Variazioni Goldberg di Bach, cento sono le micro-storie enigmatiche, un po’ criptiche, di Centuria un’opera di Giorgio Manganelli poco conosciuta. Faremo dialogare note e parole. Con alcune stimolanti invasioni di campo».
Segni del destino
«Le Variazioni Goldberg», riprende Dix, «mi avevano folgorato in gioventù quando le avevo ascoltate eseguite da Glenn Gould. Ma soprattutto sono legate a un rapporto più che fraterno con un amico, Renzo Marotta, che purtroppo se n’è andato via troppo presto per colpa di un incidente stradale.
Lui era uno scienziato, analizzava il dna. Ma aveva una passione particolare per la musica di Bach e soprattutto per quest’opera di cui stava studiando le serie matematiche insite nella sua struttura. Con Renzo avevamo cominciato a studiare la chitarra quando avevamo undici anni. Lui sosteneva che non ero male ma poi ho provato a imbracciarla sul palcoscenico; e ho capito che il mio livello non era soddisfacente. Meglio ricordare le nostre serate insieme».
Milanese, con un nome d’arte che omaggia le sue radici ebraiche (Gioele era un profeta della Bibbia) ma che soddisfa il sogno di «avere un cognome con la x che non fosse Craxi», Dix ricorda la Scala da bambino.
«Mio padre, appassionato di musica classica, aveva un palco centrale al terzo ordine. Mi ricordo una Tosca e un’Aida. E poi un Lohengrin. Quella sera era presente anche mio zio Gustavo, incallito frequentatore dell’opera. Lui conosceva tutti i libretti e dunque i momenti salienti degli spettacoli. Visto che il Lohengrin era parecchio lungo, disse a un certo punto: adesso per venti minuti posso anche dormire.
Al di là di questi aneddoti, la musica che ha scandito la mia infanzia è stata quella di Schubert: La trota la conosco a memoria. Manco fossi un pescatore…».
Ora alla Scala ci va per stare sul palcoscenico. Gioele Dix è impegnato nella serie di concerti per famiglie con l’ensemble degli Strumentisti e il Coro di Voci Bianche dell’Accademia.
«L’atmosfera di questi appuntamenti è calda, tra il didattico e il giocoso, sempre con il giusto aplomb che richiede il teatro del Piermarini. Nel programma c’è un po’ di tutto, dalle canzoni tradizionali francesi a Rossini, da Bach a McCartney. Io mi infilo tra un brano e l’altro come un Virgilio. Ho legato molto con il coro diretto dal maestro Casoni. Mi riporta ai miei esordi nel teatro per ragazzi».
Col tempo Gioele Dix ha sviluppato un amore per il blues.
«Anche quello dei bluesman bianchi: il mio idolo è John Mayall: sono andato a vederlo suonare ovunque, una volta l’ho intercettato a una festa di paese a Subiaco. Se dovessi portarmi della musica su un’isola deserta, sceglierei innanzitutto tutta la sua discografia. E poi naturalmente ogni cosa di Schubert. E Rossini, che mi ha sempre dato il senso della gioia della musica. Infine Pino Daniele: mi manca tanto, come fosse un amico».
di Alessandro Cannavò