Quando Paolo Sorrentino riceve la statuetta per La grande bellezza come miglior film straniero, cinque lustri dopo l’ultimo premio a La vita è bella, ringrazia le sue fonti di ispirazione: Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona.
Nella sua opera, sia cinematografica sia televisiva, i riferimenti a ciascuno di questi quattro elementi sono molteplici, a volte espliciti, a volte disseminati tra inquadrature e righe della sceneggiatura, ma sempre pronti a essere colti dai più attenti.
In modo particolare, i Talking Heads serpeggiano ovunque nell’opera sorrentiniana, emergendo in modo dirompente in un altro dei suoi lungometraggi, dal titolo peraltro emblematico quale This Must Be The Place.
Il riferimento si intuisce già dal nome stesso della pellicola, che condivide con il brano This Must Be The Place (Naive Melody) di David Byrne e della sua band. Un brano che è già comparso nella colonna sonora dei due film dedicati da Oliver Stone a Wall Street e che arriva al cinema direttamente dall’album Speaking In Tongues.
E c’è un altro elemento non trascurabile nel film: lo stesso Byrne è protagonista di due scene emblematiche, una dove dialoga con il protagonista Cheyenne, interpretato magistralmente da Sean Penn; l’altra, di poco precedente, durante un concerto della band. L’esibizione, non a caso sulle note della già citata canzone, è catturata da un lungo piano sequenza, dove l’occhio della macchina da presa abbraccia scenografia, l’intera formazione al completo sul palco, il pubblico e infine il protagonista del film, rilevando con nitidezza ogni dettaglio senza tralasciare il perfetto equilibrio della globalità.
E qui non solo musica e cinema si fondono, ma aprono un sorta di terza dimensione, nella quale immediatezza e universalità della perfomance live sono impressi sullo schermo e lì per sempre fermati, fondendo gli stili di due maestri di entrambe le arti.