Poche pagine della storia della musica sono così affascinanti come quella dell’incontro dei grandi compositori con la tradizione musicale ungherese. Dalle Danze di Brahms alla Csárdás di Monti, essa ha costituito un potente motivo ispiratore, capace di incarnare l’idea di un esotico ad un tempo efficace e rassicurante.
L’Ungheria è infatti, per il mondo germanico e mitteleuropeo, la porta d’oriente per eccellenza. A seguito della costituzione dell’impero austro-ungarico, Budapest ne diventerà ufficialmente la seconda capitale; essa è intimamente unita a Vienna dal corso del Danubio, nella tappa intermedia in un tragitto – tanto reale quanto suggestivo sul piano immaginario – che dalla Foresta Nera, cuore della vecchia Europa, supererà le Porte di Ferro per giungere ai lontani porti del Mar Nero.
Tuttavia, più che basarsi sulla conoscenza di autentiche pratiche musicali magiare, il mito ottocentesco della “musica ungherese” spesso corrisponde a modelli forgiati e circolanti di vita propria all’interno degli ambienti colti. Tali stereotipi spesso prendono come riferimento le forme di musica urbana dell’Europa orientale e le pratiche dei musicisti professionisti per eccellenza: gli zingari.
Béla Bartók e Zoltán Kodály
Solo ai primi del ‘900 si verifica un salto di qualità, nel rapporto tra linguaggio compositivo e forme di alterità musicale. Le ragioni risiedono nella saldatura che si viene a realizzare tra la pratica compositiva e la ricerca dell’autentica musica contadina magiara. Essa reca le prestigiose firme di Béla Bartók e Zoltán Kodály, il cui contributo alla nascente etnomusicologia è di pari importanza a quello nel campo creativo.
L’uso della registrazione durante le ricerche tra i contadini ungheresi – e dunque la presenza del fonografo, all’epoca una modernissima e dirompente novità – consente di fissare su un supporto fisico una materia sonora tanto suggestiva quanto fluida e sfuggente, sottraendola alla caducità di fruizioni occasionali. La registrazione permette ripetuti ascolti e analisi dei documenti sonori, facendo cogliere appieno le peculiarità delle melodie contadine; e una volta caduti certi pregiudizi, fa emergere anche le loro innegabili valenze estetiche.
Così si esprime Bartók nel 1928, nel suo saggio La musica popolare e la nuova musica in Ungheria, dopo avere macinato oltre due decenni di registrazioni sul campo e trascrizioni di melodie contadine, in parallelo alla sua attività di pianista e compositore: “Io sono convinto che ognuna delle nostre melodie popolari, popolari nel senso stretto della parola, sia un vero modello della più alta perfezione artistica. Nel campo delle forme semplici ritengo quelle melodie senz’altro dei capolavori, esattamente come nel campo delle forme complesse lo sono una fuga di Bach o una sonata di Mozart”.
La ricerca sul mondo musicale contadino ungherese porterà a un monumentale corpus di registrazioni e di trascrizioni. Essa non solo risponde all’istanza di creare di un linguaggio compositivo, ma si salderà, pochi anni dopo, anche col bisogno di ricostruire l’identità di una nazione uscita stravolta dalla tragedia della Grande Guerra, e i cui confini linguistico-culturali non coincidono più con quelli politici.
Più che a sviluppare le suggestioni offerte da trascrizioni e da citazioni melodiche del canto contadino, Bartók e Kodály mirano a metabolizzarle in un idioma sonoro capace di assorbirne l’aura e i tratti più intimi e profondi. Citiamo ancora una volta Bartók che con la sua lucida visione, nel 1931, nel suo testo Influsso della musica contadina sulla musica colta moderna, si esprime nei seguenti termini:
“Può darsi […] che il musicista non voglia elaborare melodie popolari o farne delle imitazioni, bensì intenda e riesca a dare alla sua musica la stessa atmosfera che distingue la musica contadina. In questo casi si può dire che il compositore si è impadronito del linguaggio musicale impiegato dai contadini e che lo domina con la stessa disinvoltura e perfezione con cui un poeta domina la lingua madre. Vale a dire insomma che il modulo espressivo della musica contadina è diventato il suo linguaggio”.
Sarà questa la via maestra che caratterizza l’esperienza dei compositori ungheresi del XX secolo: si assiste alla creazione di una “lingua madre” in grado di risuonare in primo luogo nelle opere di Bartók e Kodály, e che nutrirà poi i compositori delle generazioni successive, a iniziare da Ligeti e Kurtag.
Sagra Musicale Umbra
Il novecento musicale ungherese è stato al centro di un’intera giornata della Sagra Musicale Umbra, il 20 settembre, su esplicita volontà del direttore artistico Enrico Bronzi, con l’obiettivo di restituire questa vicenda musicale nei suoi tratti più autentici; in particolare, il dialogo continuo tra la creatività individuale e l’humus del canto tradizionale contadino che rappresenta la sua fonte primaria di ispirazione.
Essa si è articolata in tre momenti, in tre diversi luoghi della città. A mezzogiorno, al Palazzo della Penna, una conferenza introduttiva sulla giornata, seguita dall’esecuzione di Vladimir Bogdanović della Sonata per violoncello op. 8 di Kodály, brano di grande impegno interpretativo, in cui la “lingua madre” non ha timore di confrontarsi con il peso di un’ingombrante tradizione storica.
Nel pomeriggio, il concerto vocale di ArmoniosoIncanto diretto da Franco Radicchia presso la chiesa di S. Ercolano, alle prese con suggestive pagine vocali di Kodály, Bárdos, Bartók e Horváth.
Il culmine si è raggiunto al concerto serale, presso la chiesa di San Bevignate, con l’Orchestra da Camera di Perugia, e soprattutto con la presenza del Muzsikás Ensemble, della cantante Mária Petrás, interpreti di straordinario valore capaci di trasferire nelle sale da concerto l’autentica musica ungherese. Il concerto è stato concepito nella formula innovativa di un flusso musicale ininterrotto della durata di oltre un’ora e mezza, in cui immergersi nell’ascolto di capolavori in dialogo con i materiali folklorici che ne hanno costituito le fonti di ispirazione.
L’inizio è stato dato dall’ascolto di un canto registrato su fonografo da Bartók del 1906; hanno fatto seguito le Sei bagatelle per fiati e il primo tempo della Sonata per violoncello di Ligeti, l’Intermezzo per archi di Kodály, e le Danze Rumene di Bartók; il tutto introdotto e inframezzato dalle esecuzioni della Petrás e dei Muzsikás che riproponevano musiche tradizionali e improvvisazioni con strumenti tradizionali ungheresi, venendo a creare così un intenso dialogo, capace di intrecciarsi in un magmatico fiume di suoni.
Scorrendo il programma di sala si può notare come l’unità di certe composizioni sia stata “stravolta”: le Bagatelle sono state infatti eseguite separate distribuite nel corso del concerto, al fine di accostarle ad alcuni brani tradizionali (che hanno finito per rivelare aspetti sorprendenti di Ligeti) e le Danze rumene bartókiane sono state inframezzate dalle esecuzioni dei Muzsikás, che si sono infine “fusi” con l’Orchestra da camera di Perugia nei brani finali.
Un concerto che mirava anche a creare anche una nuova narrativa, capace di travalicare distinzioni di genere musicale e antiquati giudizi di valore, riuscendo a fondersi in un inedito flusso musicale. Come il corso del Danubio, che una volta lasciatosi alle spalle Vienna coi suoi capolavori monumentali, i suoi valzer e le sue scuole, si addentra nell’esplorazione di nuovi territori.
A colloquio con Enrico Bronzi
Nicola Scaldaferri: Il sottotitolo che hai dato al festival è “La musica dal profondo”. E’ un’idea assai potente, che richiama valori, magari nascosti, che stanno alla base di certe pratiche umane, e quindi anche musicali.
Enrico Bronzi: A me interessa soprattutto la ricerca delle radici più profonde da cui scaturisce l’esperienza musicale. Credo infatti che anche la musica d’arte, che è il prodotto di una raffinata speculazione, abbia in realtà radici ben piantate in alcuni principi che sono di valenza universale, e che interessano tutte le culture e tradizioni: il canto e la danza, o certe intense emozioni, come il lutto, elaborate anche grazie alla musica. Io credo che alla base vi siano sempre dei comportamenti condivisi che possono essere compresi nella loro immediatezza ed entrare in relazione con altri.
NS: La giornata ungherese, con la messa in relazione tra musica d’arte e radici folkloriche certamente ha rappresentato un momento chiave di questo festival. Il concerto serale poi ha costituito una proposta innovativa: soprattutto l’idea di frantumare l’unità di certi lavori (penso alle Bagatelle e alle Danze rumene) per agevolare l’accostamento alle “fonti” ed evidenziarne le relazioni. Non hai avuto timore di compiere un’operazione, diciamo, di lesa maestà?
EB: Non credo, se pensiamo a quello che si fa oggi…In realtà secondo me tutto è stato solo impaginato in modo diverso, al fine di rendere il concerto più dialogante. Non avrebbe fatto lo stesso effetto se si eseguiva una prima parte tutta popolare e una seconda tutta colta.
Credo che esplicitare queste connessioni, non solo durante una lezione, ma anche in forma di spettacolo, con la creazione di accostamenti specifici, aiuti tantissimo. Ci guadagna soprattutto la musica colta, che ritrova le sue radici più autentiche.
NS: Nell’alternanza tra le esecuzioni dei Muzsikás e quelle dell’orchestra, si aveva l’impressione che l’orchestra venisse contagiata dai primi; che vi fosse quasi un processo di mimesi, utile non solo a far capire la natura del brano ma anche darne una chiave interpretativa. Per esempio in Ligeti, che ha acquistato così una luce del tutto nuova, o nelle Danze rumene, col dialogo serrato tra le versioni orchestrali e quella ruspanti dei Muzsikás…
EB: La prima prova delle Danze rumene è stata un’esperienza di estremo interesse. L’orchestra aveva iniziato col suonare le Danze in un modo che personalmente trovavo troppo lento e cantabile, diciamo assai convenzionale. Poi hanno attaccato i Muzsikás; e dopo aver sentito suonare loro tutto si è trasformato: l’orchestra ha eseguito le stesse cose in modo meno retorico, più ritmico, più rubato, E questo senza che io dirigessi, o dessi loro delle spiegazioni.
NS: Non è la prima volta che proponi concerti in cui dialogano pratiche e culture musicali diverse. Già a Portogruaro e a Trieste, durante i festival che hai diretto, hai promosso eventi, ai quali ho avuto il piacere di collaborare, che si muovevano lungo l’esplorazione di radici e connessioni musicali profonde.
EB: Certo, quello sulle ance doppie popolari che incorniciavano le sonate per oboe di Zelenka, o lo Stabat Mater di Boccherini inframezzato da una versione in sardo dei cantori di Santulussurgiu. Sono tappe di una ricerca verso l’esplorazione di gesti e comportamenti musicali trasversali che possono essere di valenza universale, e che resta uno dei miei temi centrali di interesse.