Con scelta incontestabile il Leone d’oro della Biennale Musica nel 2020 è stato assegnato a uno dei padri storici della nuova musica spagnola, Luis de Pablo, il cui catalogo si è arricchito di un nuovo Concerto per viola e orchestra, presentato in prima assoluta nel concerto inaugurale. Nei primi giorni c’erano anche un omaggio a Nono e I Cenci di Battistelli (da Artaud, coprodotto con Reggio Emilia); ma ho privilegiato il periodo della consegna del Leone d’argento perché in Italia ci sono state finora pochissime occasioni di ascoltare il francese Raphaël Cendo (Nizza 1975), presente a Venezia solo alcuni anni fa, quando un concerto in Biennale lo fece conoscere insieme all’altro grande protagonista del movimento della “Saturation”, Franck Bedrossian (1971), di cui avremmo volentieri ascoltato altri lavori.
Il concerto dedicato a Cendo nelle dense giornate conclusive della Biennale Musica proponeva in prima italiana un unico ampio lavoro del 2017, Delocazione, per quartetto d’archi e quartetto di voci, in cui la ricerca di disorientamento e gli “eccessi” che caratterizzano la “saturazione” sono perseguiti per sottrazione: più di un’ora di musica in cui il quartetto vocale si mantiene quasi sempre sommesso. I testi sono raramente percepibili, spesso frantumati in sillabe sussurrate, o proposti con scatti improvvisi, nella tremenda tensione di un lento rituale in cui le voci si intrecciano con le sonorità “pungenti e affilate” del quartetto d’archi, sistematicamente piegato a tecniche e sonorità nuove. Solo il terzultimo testo, una testimonianza sugli effetti devastanti dell’atomica su Hiroshima nel 1945, rende esplicito il “punto centrale” di Delocazione; ma l’insieme dei nove brevi e intensi frammenti che Cendo ha preso da Les natures indivisibles di Claude Royet-Journoud e da Génie du non-lieu di Georges Didi-Hubermann (affiancandoli ai 17 versi all’inizio della prima delle Duineser Elegien di Rilke), evita allusioni dirette «tra descrizione concreta e mistero assoluto e totale» (Cendo). La proiezione dei testi per il pubblico che non poteva averli (non tutti portano con sé il catalogo) sarebbe stata indispensabile per seguire la successione frammentaria e minimalistica dei sommessi gesti vocali e dei tesi gesti strumentali. Con ragione il compositore sottolinea che questi materiali sono segretamente collegati «da una ricerca del silenzio persistente, sino alla vertigine». Non so se sia il lavoro più inventivo di Cendo; ma indubbiamente colpisce la forte coerenza della concezione di questo “rituale”. Se ne può ascoltare su Youtube la registrazione della prima assoluta, con gli stessi interpreti della Biennale, l’ottimo Quartetto Tana e i gloriosi Neue Vocalsolisten.
Nei concerti proposti nei giorni vicini alla serata del Leone d’argento ricordiamo l’omaggio a Donatoni affidato al Divertimento Ensemble e le eccellenti qualità di alcuni complessi poco noti in Italia (Ensemble Oktopus, Cairn, Interface). Nel programma del bavarese Ensemble Oktopus ricorderemo soprattutto la Ballata n. 7 (2018) di Francesco Filidei, in cui la sua originale concezione del suono si manifesta insieme a una vena poetica che sembra rivelare una crescente vocazione “narrativa”. Significativa la conferma delle qualità della giovane greca Sofia Avramidou (1988). L’Ensemble Cairn proponeva 4 pagine dal ciclo Portulan di Tristan Murail e la prima italiana di Die finsteren Gewässer der Zeit (Le oscure acque del tempo) di Jerome Combier (1971), un lavoro posto sotto il segno di una fluida e forse un po’ fragile eleganza. Un altro autore francese, Jean-Luc Hervé (1968), era proposto dall’Ensemble Interface. In De près (2014) Hervé crea un rapporto poeticamente suggestivo tra i sette strumentisti e l’elettronica, con un uso evocativo dello spazio.
Prima di Hervé c’era una attesa novità assoluta di Giovanni Verrando (1965), Instrumental Freak Show – A Manifesto on Diversity per voce, sei esecutori ed elettronica. Proseguendo nella sua ricerca di suoni “nuovi” su nuovi strumenti, Verrando in questo “mostruoso” Show individua in mezz’ora di musica cinque parti, in ognuna delle quali una strumentazione specifica si associa a testi e immagini che sotto il segno della “diversità” intendono caratterizzare cinque “personaggi”, tra i quali un poeta russo mai esistito, un cantante chiamato “Oiseau Lyre” e Drill Bit “macchina spara-parole”. Non ho dubbi sul fatto che in questo lavoro, accolto da molti applausi, l’autore abbia perseguito stretti rapporti tra musica, testi e immagini; ma confesso con dispiacere di non essere riuscito a trovare una chiave di lettura soddisfacente, e di aver percepito prevalentemente una semplice successione di effetti sonori. Sarà interessante riascoltare questo pezzo l’anno prossimo a Milano, magari con un apparato informativo meno sintetico di quello offerto dal catalogo della Biennale Musica, come al solito spiacevolmente inadeguato. Su questo punto il nuovo presidente ha proseguito sulla non condivisibile linea voluta dal suo predecessore, lontana anni luce da quella dei tempi in cui la Biennale Musica fu diretta da Mario Messinis.
Al ricordo di Messinis (1932-2020), scomparso in settembre, la Biennale ha dedicato un omaggio con l’ottimo Ex Novo Ensemble che ha riproposto alcuni dei pezzi scritti per lui da Claudio Ambrosini, Alberto Caprioli, Michele dall’Ongaro, Adriano Guarnieri, Fabio Vacchi.
Paolo Petazzi
Photo Credits: Andrea Avezzù