La musica di Rebecca Saunders indaga la natura profonda del suono. È quasi un tessuto (musicale) organico, che sembra respirare, sussurrare, stridere, passare dallo stato solido a quello aeriforme, dall’eruzione al silenzio, cambiare colore e volume.
Vera alchimista del suono, la cinquantenne compositrice inglese, residente a Berlino, sfrutta spesso lo spazio come parte integrante della composizione. Ha pensato alcuni suoi lavori per spazi specifici, esplorando l’impatto acustico della posizione dei musicisti e del pubblico all’interno di quelle architetture. In Chroma (2003) ha ad esempio disposto solisti e ensemble all’interno della Tate Modern di Londra, come parti di un’istallazione sonora. In Stasis (2011), scritto per l’ensemble musikFabrik ed eseguito a Donaueschingen, ha realizzato una sorta di sinfonia spazializzata (poi rielaborata per sale diverse e diversi organici), un collage sonoro che indagava anche il confine con il silenzio, ispirandosi a Ultimi Sussulti (Stirring Still) di Samuel Beckett.
L’idea chiave di questi lavori è che quando un suono viene messo nello spazio, diventa un corpo risonante. Per questo la Saunders immagina una musica capace di dialogare con gli spazi architettonici, di uscire dal flusso del tempo, «di essere proiettata nello spazio come una scultura sonora. E che al momento dell’ascolto ci permetta di focalizzare assolutamente la presenza fisica del suono».
Ultimo esperimento di questo genere è stato Yes, scritto ancora per l’ensemble MusikFabrik diretto da Enno Poppe, presentato a settembre, prima a Berlino, nella Kammermusiksaal della Philharmonie, poi a Parigi, nella splendida cornice della chiesa di Saint-Eustache, come uno degli appuntamenti clou del Festival d’Automne. Ampio lavoro per soprano, diciannove solisti e direttore d’orchestra, si basava sul monologo di Molly Bloom, che conclude l’Ulisse di Joyce: un flusso di energia, di pensieri, che scorrono liberi, ininterrotti, senza punteggiatura, se non la reiterazione di uno «yes» riferito a una molteplicità di temi, momenti erotici, romantici, sensuali, grotteschi, in «un intreccio di sentieri innumerevoli».
La parte cantata, affidata alla voce duttilissima di Donatienne Michel-Dansac, piena di sfumature espressive, passava dall’iniziale linea scarna e spigolosa, accompagnata dal solo contrabbasso, al canto salmodiante, al monologo interiore, al sussurro, al grido, in un gioco pieno di echi e di frammenti parlati. La partitura era composta di 25 moduli diversi (che vengono ripartiti nello spazio e combinati in maniera diversa per ogni esecuzione), montati in modo tale da creare un gioco continuo e avvolgente di suoni a distanze e densità variabili, di linee che si sviluppavano in traiettorie sia temporali che spaziali. Una materia che via via si raddensava, acquista una forma, circolava nello spazio come una linfa vitale, con grandi masse di suono, lunghi ostinati, ampie polifonie, e continue ondate, alternate a sibili prolungati, scie dai colori metallici, turbolenze quasi impercettibili, ma sempre cariche di tensione.
Gli strumentisti e la cantante erano disseminati nelle navate, poi si riunivano in “ensemble” davanti all’altare insieme al direttore, quindi si spostavano nuovamente verso punti diversi della chiesa, suonando dal pulpito, dalle navate laterali, dall’altissima balconata dell’organo. I due pianoforti e le percussioni dialogavano a distanza con una trama di rintocchi che aggiungeva al pezzo un’atmosfera ieratica. L’insieme dava l’idea di un enorme «mobile» acustico, che cambiava di aspetto e di colore con il continuo spostamento dei musicisti, di una scultura sonora che via via si espandeva, sfruttando anche la suggestione acustica della chiesa, disomogenea ma piena di riverberi, le sue linee gotiche (anche se Saint-Eustache fu edificata in pieno Rinascimento), le sue luci, le sue ombre.
Immagine di copertina: Saunders Rebecca Ph. Katrin Schander