Cinquant’anni dopo, l’opera di Gluck è il simbolo della carriera del regista, scenografo, costumista. Incontro Pier Luigi Pizzi, grande protagonista del teatro internazionale
Quasi settant’anni di carriera, più di cinquecento spettacoli realizzati. Pier Luigi Pizzi, milanese di nascita ma cittadino cosmopolita, classe 1930, rappresenta un pilastro nella storia del teatro musicale internazionale.
Chi era Pier Luigi Pizzi
Figura di artista a tutto tondo, scenografo, costumista, regista, e profondamente innamorato dell’arte, come allestitore di mostre (si è definito “regista di mostre”. E diverse ne ha curate, da Parigi a Napoli, a Milano; ultima in ordine di tempo quella piccola ma raffinata e preziosa dedicata al rapporto tra Rossini e il Teatro alla Scala aperta al Museo Teatrale sino al prossimo 30 settembre) e come collezionista.
Esordisce come scenografo nel teatro di prosa nel 1951. Al Teatro alla Scala firma le sue prime scene nella stagione 1962-63, per Il trovatore diretto da Gianandrea Gavazzeni. Risale al 1977 la sua prima regia d’opera, Don Giovanni al Regio di Torino. Da allora ha portato in scena i più diversi titoli operistici in tutto il mondo, con particolare frequenza anche al Rossini Opera Festival di Pesaro.
Elegante e drammatico
Quello di Pizzi è un teatro di elegante essenzialità, ma di eloquente forza drammatica. Al Teatro Coccia di Novara, sul podio Gianna Fratta, è andato in scena di recente il suo Nabucco. Un enorme tappeto bianco, con sopra collocati la Menorah e il trono di Nabucco, efficaci simboli di un conflitto che è storico e religioso ma che è anche vissuto dai personaggi.
Di lì a poco, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha accolto l’Alceste di Gluck firmata da Pizzi per intero (regia, scene, costumi e luci), allestimento che ha riadattato a quei vasti spazi l’edizione tenuta a battesimo alla Fenice di Venezia, nel 2015. Uno spettacolo dominato dai colori bianco e nero, calato in uno spazio di pura eleganza neoclassica; sobrio tanto negli elementi scenici quanto nella gestualità. Eppur potente in questa sua nobile concezione.
A dirigere i complessi del Maggio c’era Federico Maria Sardelli; il cast annoverava le voci di Nino Surguladze (Alceste), Leonardo Cortellazzi (Admeto), Manuel Amati (Evandro), Roberta Mameli (Ismene). Ed è stato come un ritorno agl’inizi della carriera per Pizzi, che proprio a Firenze lavorò, come scenografo e costumista, alla sua prima Alceste in assoluto.
La prima Alceste
Correva l’anno 1966, più di cinquant’anni fa. La regia era di Giorgio De Lullo, la bacchetta di Vittorio Gui.
«Quell’Alceste ha rappresentato per me una grande esperienza. Mi fece scoprire quest’opera, e perché nel ruolo della protagonista cantava Leyla Gencer, che dette al personaggio una dimensione tragica davvero insuperabile. Va detto che all’epoca Alceste venne proposta in una versione non proprio filologica. Era in italiano, ma nella traduzione della successiva versione francese del 1776. Per Venezia e Firenze è stata scelta la versione originale di Vienna del 1767, con il testo poetico italiano di Ranieri de’ Calzabigi».
Pier Luigi Pizzi, incontrato fra una prova e l’altra dell’Alceste al Teatro del Maggio, segue sempre da vicino la realizzazione del suo spettacolo (anche se «solo tre giorni di prove, un duro lavoro. Una volta era possibile lavorare anche di notte»). Si preoccupa di ogni dettaglio e rimodella la verità dei personaggi sui nuovi cantanti, differenti da quelli della messinscena veneziana.
«Lo spazio del Teatro del Maggio è più ampio rispetto alla Fenice, per cui lo spettacolo ha preso più respiro e ha una nuova distribuzione. Nuovo è anche il lavoro svolto con i cantanti, perché i personaggi devono essere costruiti su ognuno di loro. La credibilità nasce sempre dal carattere dei nuovi interpreti».
Il manifesto Gluck
È noto che sulla prima edizione a stampa della partitura di Alceste (1769) apparve una prefazione, di probabile mano di Calzabigi. È il manifesto programmatico della volontà riformatrice di Gluck, che teorizzava un teatro musicale dove la parola ritornasse in primo piano con il suo valore espressivo.
Al bando il virtuosismo fine a se stesso dei cantanti, dannoso alla continuità narrativa dell’azione; il modello da seguire doveva essere quello dell’antica tragedia greca. È la querelle infinita se in un’opera debba contare più la parola o la musica. E proprio a quelle idee Pizzi si è rifatto per il suo spettacolo.
«Ho voluto rispettare il senso della riforma di Gluck, riportando Alceste a un’idea di classicità assoluta, senza artificiosità. Mi sono soprattutto preoccupato di fare un teatro di forte afflato tragico, ma senza sentimentalismi. Alceste ed Admeto sono un esempio di amore coniugale perfetto. Non accettano che il loro legame possa essere spezzato. Il dramma nasce dalla forza delle loro passioni».
Un teatro essenziale
Sul palcoscenico questa concezione si concretizza in «un impianto scenico ridotto all’osso con spazi ben definiti: la Piazza, il Tempio, l’Oltretomba e la Stanza nuziale. Questi luoghi deputati servono al pubblico per potersi orientare nello svolgimento della vicenda».
Lo scopo principale da lui perseguito diventa quello della chiarezza. «Ho dato spazio alla narrazione mostrando fin dall’inizio il re Admeto sopraffatto dalla malattia mortale. Il Coro partecipa alla storia proprio come nel teatro greco. È disposto sulla scena in due sezioni guidate da due Corifei: Evandro e Ismene».
Dopo l’edizione del 1966, di Alceste Pier Luigi Pizzi ne ha firmate altre due. Una a Ginevra (1984, nella versione francese); l’altra alla Scala (1987, nella versione italiana), quest’ultima con Riccardo Muti direttore. Cos’è cambiato nella sua visione generale di quest’opera?
«Con gli anni, la mia visione è passata attraverso i filtri di un sempre maggiore rigore. Ho voluto portare lo spettacolo a un livello sempre maggiore di chiarezza e luminosità», risponde Pizzi. È lui stesso a riconoscere che le prime idee registiche dell’Alceste di oggi vennero fuori con lo spettacolo del 1966.
«Avevo da poco realizzato Il gioco delle parti di Pirandello con la Compagnia dei Giovani (la più importante compagnia teatrale italiana nata nel dopoguerra, costituita da personalità come Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri, Romolo Valli ndr), riuscendo a dare attraverso un’immagine metafisica un segno forte per rendere universale la vicenda e riscattarla così da una sorta di bozzettismo folcloristico», racconta.
«La stessa operazione la rivolsi alla scenografia di Alceste, creando ambienti ispirati alla pittura post cubista tra Casorati e Sironi. All’inizio quest’idea venne accolta dalla direzione artistica del Teatro Comunale di Firenze con una certa diffidenza. Ma alla fine il risultato, liberato da ogni reminiscenza barocca, raccolse grandi consensi».
Le collaborazioni
Pier Luigi Pizzi ha avviato col Maggio Musicale Fiorentino un’intensa collaborazione fin dagl’inizi della carriera. Nel 1959, realizzò le scene e i costumi per l’Orlando di Händel.
Nel ripercorrere insieme quest’album, riaffiorano in particolare gli spettacoli con la regia di Ronconi e Muti sul podio («Anni di grande teatro, spettacoli vissuti con particolare fervore»). Come Orfeo ed Euridice (nel 1976, «forse il più bello»); Guglielmo Tell, Nabucco, Il trovatore; poi la memoria va alla Tetralogia (1979-81) con Zubin Mehta e ancora Ronconi («voltò pagina nell’interpretazione wagneriana»), e, come regista, a Morte a Venezia di Britten (Premio Abbiati 2000) con Bruno Bartoletti direttore e L’incoronazione di Poppea di Monteverdi sotto la bacchetta di Alan Curtis.
Ma senza dichiarare alcuna preferenza, perché rimangono sempre «tutti nella mia mente e nel mio cuore». Parliamo anche delle regie di oggi. Pizzi stigmatizza il narcisismo di alcuni suoi colleghi, la rincorsa al clamore mediatico talvolta coltivata dagli stessi teatri.
Il problema non sono i cambiamenti nell’ambientazione. «L’importante è sempre che ci sia coerenza e una motivazione logica. Credo di essere stato il primo ad ambientare, negli anni ’70 alla Scala, I Vespri Siciliani di Verdi in epoca risorgimentale. Ci sono storie che hanno significati universali: per questo ho messo in scena La traviata nella Parigi degli anni ’40, sotto l’occupazione nazista».
Ma «altra cosa sono gli stravolgimenti. E non è questione di realismo, perché il melodramma è di per sé estraneo al realismo. Il regista deve interpretare i concetti che sono alla base dell’opera, trasmettendone al pubblico il significato. Evitiamo le parodie e il ridicolo. Lo stravolgimento sistematico, alla fine, risulta più noioso della cosiddetta tradizione».
di Francesco Ermini Polacci
Nelle foto, gli spazi creati da Pier Luigi Pizzi per l‘Alceste di Gluck proposto all’Opera di Firenze