Sempre più pianisti dalla Corea del Sud sbaragliano nei concorsi internazionali russi, italiani, francesi. Un fenomeno da analizzare e capire al di là dei pregiudizi. Succede al Bolzano Festival Bozen

E se musica classica fosse sinonimo di innovazione? Se non fosse associata, come spesso avviene, alla vetusta tradizione culturale del vecchio continente? E se fosse addirittura diventato “trendy” ascoltarla? Se le sale da concerto non fossero frequentate perlopiù da chiome canute ma fossero affollate da giovani e giovanissimi entusiasti? Ecco, questo è quanto sta accadendo nella Corea del Sud.
La passione orientale per la musica occidentale
Il fenomeno è piuttosto recente: la musica dell’Occidente, classica in particolare, è considerata nei paesi dell’Estremo Oriente più che attraente. È un’affascinante risorsa culturale che consente una vita ricca di stimoli e crea opportunità come viaggiare e sentirsi “cittadini del mondo”. Insomma, proprio quella musica classica che da noi è percepita come avvolta dal polveroso manto della tradizione, lì ammalia grazie al luccicante appeal dell’innovazione.
Un amore particolare, tanto più evidente quando si osserva la crescente presenza di candidati provenienti dalla Corea ai più prestigiosi concorsi musicali internazionali e l’elevato numero di vincitori provenienti da questo Paese negli ultimi anni. Questi i temi trattati nel Focus dell’edizione 2018 del Bolzano Festival e Festival Ferruccio Busoni, in programma dal 20 al 23 agosto nella città altoatesina.
Il Focus a Bolzano
Così la Fondazione Concorso Pianistico Internazionale con il suo Festival «con l’intento di preservare lo spirito del suo ispiratore Ferruccio Busoni, deve porsi delle domande e avere il coraggio di collocare il pianoforte in un contesto culturale e sociale più ampio», spiega il direttore artistico del Concorso, Peter Paul Kainrath. «Il Festival Busoni 2018 cerca di comprendere da dove provenga l’attuale eccellenza, per non dire il dominio, dei giovani pianisti sudcoreani».
Prestigiose competizioni pianistiche internazionali come Ginevra, Busoni, Van Cliburn in Texas, ARD di Monaco e Chopin di Varsavia, sono state vinte da pianisti di provenienza sudcoreana. Un fenomeno che, sbaragliando le storiche scuole pianistiche – russa, italiana e francese – merita l’indagine promossa dal Festival Busoni in collaborazione con il World Culture Networks. In programma una serie di concerti (con Chloe Mun, Jeung Beum Sohn, Yekwon Sunwoo, Kun Woo Paik); e poi dibattiti e proiezioni mirati alla scoperta dei segreti del mondo musicale sudcoreano.

Un film sul fenomeno coreano
Ad essere colpito e incuriosito per primo da questo fenomeno ormai inarrestabile, il musicologo regista Thierry Loreau autore del film The Korean Musical Mystery. La sua esperienza in merito comincia nel 1996; da allora si occupa di filmare la Queen Elisabeth Competition per la rete televisiva belga RTBF.
«Ho ripreso le performances e fornito il ritratto dei 12 finalisti di ogni edizione e quando iniziai non erano presenti musicisti coreani nelle finali. Ma dal 2000 il numero di partecipanti è cresciuto vertiginosamente fino agli ultimi dieci anni in cui si è registrato un terzo dei partecipanti provenienti dalla Corea del Sud. Nel 2010 poi, metà dei finalisti era di origine coreana; e nel 2011, 2014 e 2015 il primo premio è stato vinto proprio da uno di loro».
Si è provato a ricercare le ragioni di questo exploit nel loro spiccato spirito di competizione e nella rigorosa disciplina che accompagna il loro studio; ma non è parso sufficiente. Come spiegare, inoltre, un tale amore per la cultura musicale occidentale, tanto distante dalla loro tradizione?
Il fattore religioso
«I missionari protestanti arrivarono in Corea nel 1885; oggi il 40 percento della popolazione professa la religione cristiana. I bambini sentono ogni domenica in chiesa i Corali di Bach e cantano o suonano durante le celebrazioni liturgiche. Ecco, i musicisti coreani sono per la maggior parte di religione cristiana; nella cultura di questo Paese avere un musicista in famiglia è un orgoglio.
L’educazione e la grande considerazione che i figli nutrono per i percorsi di vita indicati dai genitori costituiscono un retaggio del Confucianesimo (anche se questo può andare in qualche misura a discapito dello sviluppo delle singole autonome individualità)».
Spesso la critica musicale rileva nei musicisti asiatici grande precisione e padronanza tecnica ma carenze nell’espressività. Così Loreau: «Non trovo particolare fondamento in questa valutazione. La Corea è divenuta negli ultimi tempi estremamente competitiva anche rispetto ai vicini giganti Cina e Giappone. Prima del 1990, in Corea, non erano presenti docenti in grado di garantire un’adeguata preparazione musicale. Ma dal 1993 è stata fondata la Korean National University of Arts.
Molti giovani musicisti coreani dopo il periodo di studio della tecnica si spostano in Europa, in Germania e Austria in particolare, per respirare la cultura e lo spirito della musica proprio dei compositori classici. Ora hanno appreso in Occidente come esprimere i sentimenti in musica e suonano con espressività e trasporto».
Un fattore anche economico
Alcune delle risposte suggerite a seguito della ricerca sul “mistero musicale coreano” sono rivelatrici. «Tra le ragioni della notevole capacità dei musicisti coreani ritengo che due siano le più significative. Primo, la buona salute in cui versa l’economia coreana che consente ai giovani di non vivere nell’incertezza del futuro e di essere seguiti con estrema dedizione dalle proprie famiglie; la seconda è una ragione di natura squisitamente politica. La cultura e l’educazione sono la forza del Paese.
Nei paesi europei, come è noto, quando c’è l’esigenza di contenere la spesa pubblica i primi tagli riguardano la cultura. Il governo coreano fa esattamente l’opposto, investe le proprie risorse nella formazione delle menti ed esporta le proprie intelligenze. Ecco che, così, al nostro lento declino corrisponde la loro crescita», conclude Loreau.
Talenti internazionali della musica, made in Corea
Nel 2015 a vincere il Concorso Busoni è la pianista coreana Ji-Yeong Mun, in arte Chloe Mun cui Amadeus immediatamente dedicò il suo disco di copertina. A quasi vent’anni, nello stesso anno vince il Concorso di Ginevra; è la prima pianista asiatica nella storia del Concorso Busoni a vincere il Primo Premio.
«Prima di incontrarla pensavo che una tale naturalezza nell’avvicinarsi al pianoforte fosse andata ormai perduta», furono le parole dell’allora presidente Jörg Demus, uno dei più rilevanti interpreti europei del repertorio pianistico.
La presidente di giuria, Yeol Eum Son
Per questa edizione presidente di giuria sarà invece la pianista Yeol Eum Son, provenienza Corea del Sud, numerosi i suoi successi nei più importanti concorsi pianistici del mondo tra cui l “Arthur Rubinstein” di Tel Aviv, il “Van Cliburn” di Fort Worth, il “Čajkovskij” di Mosca.

In tempi in cui è diffuso un progressivo scetticismo verso i tanti concorsi internazionali e si manifestano perplessità sulla loro attuale efficacia mentre le logiche per poter emergere nel mercato musicale seguono spesso altre vie, ritiene «Che i musicisti coreani abbiano una tecnica più solida esattamente come accadeva 20 o 30 anni fa per i russi. E possano forse essere più impegnati e disciplinati; ma non penso che questi siano i veri valori di un artista.
In verità non so se sia positivo che i coreani stiano superando la concorrenza. Primo, perché nei concorsi spesso vince chi non annoia, con le dovute eccezioni. Secondo, perché non sempre chi vince un concorso realmente entra nel mercato musicale europeo. Questo dovrebbe gradualmente mutare. I coreani stanno provando ora ad avere buone basi per vincere i concorsi ma è proprio questo il momento di fare dei passi ulteriori».
Yeol Eum Son, onorata presidente di giuria, prosegue «il Concorso Busoni è fortemente collegato con il mondo reale della musica. È uno dei pochi ad esserlo. Per questo sarò felice di consigliare giovani talentuosi artisti a più persone».
Il direttore artistico del concorso
Sulla Corea del Sud divenuta fucina di talenti, chiediamo di esprimere una valutazione conclusiva al direttore artistico del Festival e del Concorso Peter Kainrath, personaggio visionario e uomo di grande apertura mentale che attraverso il focus e la tavola rotonda sul “mistero musicale coreano” mira «al superamento dei pregiudizi, alla conoscenza attraverso domande aperte, senza la pretesa di giungere ad assolute verità».
E osserva infine: «Ascolterò con grande attenzione e curiosità. Non nutro nessun dubbio sul valore della disciplina per i giovani musicisti coreani; ma penso anche che il segreto non risieda unicamente in questa. O, meglio, non in questa intesa come meccanico ripetere in modo militaresco. Credo che alla base di tutto vi sia una ferrea volontà, un altissimo livello e una grande chiarezza dell’obiettivo. Ma soprattutto riconosco il grande merito a un Paese che investe nell’educazione musicale e ha il coraggio di premiare l’eccellenza dal punto di vista pedagogico. In Italia manca la propensione a riconoscere il talento e formare gli individui dalla tenera età».
L’importanza dei concorsi internazionali è per lui indiscussa. A patto però «che costituiscano e siano vissuti non come gare ma come eventi culturali di crescita. Il concorso resta una occasione per mettersi alla prova su un palco; cosa sicuramente più semplice del dover persuadere i direttori artistici per essere inseriti nelle varie programmazioni. Ma è anche una grande fortuna che oggi, oltre a questi, siano tante le altre porte aperte al talento».
di Luisa Sclocchis