Al Teatro dell’Opera di Roma sono andate in scena le repliche di Cavalleria rusticana e Pagliacci. A indispettire il pubblico, la presenza ingombrante del regista Delbono in scena
Ho ascoltato all’Opera di Roma Cavalleria rusticana e Pagliacci diretti da Carlo Rizzi a una replica in cui le contestazioni al regista Pippo Delbono non avevano la violenza che aveva creato tensione e disagio alla prima. C’era una robusta claque, c’erano ammiratori di Delbono; non c’era più la violenza fanatica di chi pensa di vendicare chissà quali crimini.
Il civile dissenso, comunque, era nettissimo
Non credo che fosse frutto di nostalgie per la processione di Pasqua, e per tutto il bozzettismo oleografico che oggi è un ben giustificato luogo comune eliminare, anche a prezzo di tradire qualche didascalia del libretto. La pregevole scena unica di Sergio Tramonti, la stessa di Cavalleria rusticana del San Carlo di Napoli, offriva lo spazio astratto di una stanza rossa che in Pagliacci (nuovo allestimento) era in parte trasformata con l’apertura della parete di fondo, mutando luci e colori (da ricordare le luci di Eugenio Bagnoli).
La regia cercava di evocare immagini prevalentemente statiche e stilizzate. Nei momenti migliori creava una dimensione rituale, con il coro talvolta disposto suggestivamente lungo le pareti, talvolta rigidamente schierato in orizzontale. Non credo che il pubblico si sia irritato per questo; né per il fatto che una parte di Pagliacci sembrava lasciata al talento scenico di alcuni dei protagonisti vocali, oltre che all’impegno del gruppo di figuranti formato dalla compagnia dello stesso Delbono.
Quel regista a spasso
Superfluo, e per molti insopportabile, era l’aggirarsi del regista su e giù per la scena; o il suo interferire con discorsetti autobiografici assai poco pertinenti nel contesto. Chiedere a Delbono di non essere narcisista e autoreferenziale è probabilmente impossibile; ma è indispensabile quando gli si propone di confrontarsi con testi non suoi.
Punti di forza dello spettacolo romano erano le due protagoniste femminili e la solida direzione. Carlo Rizzi ha evitato con misura i rischi di pesantezza e volgarità. Non ne era del tutto immune la pur intensa Santuzza di Anita Rachvelishvili, un poco a disagio nel registro acuto. Nedda era Carmela Remigio, bravissima nel mostrare che eleganza e intelligenza musicale servono anche a Leoncavallo, e al tempo stesso molto efficace e inventiva in scena. Il suo assassino era il sicuro Fabio Sartori.
Di solida ma anonima rigidezza il Turiddu di Alfred Kim. Grevorg Hakobyan era preferibile come Alfio e un poco rozzo come Tonio; Dionisios Sourbis era un pallido Silvio e Matteo Falcier un pregevole Beppe.
Paolo Petazzi