Ostrava Days: la musica contemporanea diventa comunità

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A cosa serve un festival di musica contemporanea? Dovrebbe muovere l’interesse del pubblico, ma anche la viva curiosità degli “addetti ai lavori”, compositori, musicisti, organizzatori, direttori artistici.

Essere un’occasione per scoprire nuovi linguaggi musicali, tendenze diverse, ma anche alcuni capolavori dimenticati delle avanguardie storiche, e metterli a confronto con le ricerche che fanno oggi i compositori in diverse latitudini del pianeta. Costituire un punto di riferimento per i giovani, per il mondo musicale, per il mondo dell’arte e della creatività in tutte le sue diverse declinazioni, che in questi anni si stanno intrecciano in maniera molto interessante. Accade raramente in Italia. Accade invece agli Ostrava Days, rassegna di musica contemporanea giunta alla sua nona edizione, dove centinaia di persone, provenienti da continenti diversi, affollavano i concerti (24 concerti, con 30 prime mondiali), discutevano, si mescolavano tra un concerto e l’altro con musicisti e compositori, creando la dimensione di una vera comunità di appassionati. Giornate vivaci e coinvolgenti, in una città poco conosciuta della Repubblica ceca, con un passato industriale, una storia legata all’estrazione del carbone, alla lavorazione del ferro, al grande inquinamento. Ma dopo la chiusura di tutte le miniere, nel 1989, i vecchi impianti industriali sono stati ricobvertiti in spazi culturali, musei e teatri, e gli sforzi di tutta la comunità si sono concentrati sulla ricerca scientifica e sulla cultura, soprattutto sulle arti contemporanee.

Nella Trojhalí Karolina, bello spazio industriale poco lontano dal centro, ha fatto il suo debutto una nuova orchestra, la ONO (Ostrava New Orchestra), formata da giovani musicisti europei (da 18 a 35 anni, alcuni anche italiani) e votata al repertorio contemporaneo. Sotto la bacchetta di Petr Kotík (direttore artistico della rassegna) e del francese Bruno Ferrandis, ha eseguito prime mondiali di due ospiti d’onore, Phill Niblock e Bernhard Lang. #9.7 di Niblock, per violoncello e orchestra (pezzo nato dall’aggiunta di una parte di violoncello a un pezzo per orchestra preesistente, intitolato #9), era imperniato su un lungo suono di bordone, ipnotico, messo in vibrazione da piccole stratificazioni semitonali, che gli davano un aspetto insieme corale e straniante. Monadologie XXXVII Loops for Leoš di Lang si basava invece su piccoli frammenti tratti da Janàček (genius loci a Ostrava: a lui è intitolato il Conservatorio della città, e a Hukvaldy, suo villaggio natale, sono diventate mete turistiche la sua casa-museo e la scultura della piccola volpe astuta, nel parco del castello). A partire da poche cellule ricavate dal ciclo pianistico Po zarostlém chodníčku (Sul sentiero di rovi) – in partioclare da due pezzi, Naše večery (Le nostre serate) e Dobrou noc! (Buona notte) – Lang ha creato una densa scrittura orchestrale, fatta di ripetizioni ma molto varia, screziata da intriganti meccanismi ritmici, metamorfosi armoniche, avvolgenti fasce spettrali, grandi crescendo. Un autentico capolavoro.

Nei due concerti della ONO non mancavano dei pezzi storici come Ionisation di Varèse e Aïs di Xenakis, ottimamente interpretato dal percussionista Tamas Schlanger e baritono Holger Falk, che affrontava con disinvoltura la parte spigolosissima, estesa dal registro grave al falsetto. Si sono poi ascoltati Giorno velato presso il lago nero (2013) di Sciarrino, ispirato a un dipinto di Jan Preisler, e Trurliade – Zone Zero (2016) di Olga Neuwirth, caotico mélange ispirato a un breve sketch di Jerry Lewis. Molto interessanti anche i lavori dei giovani compositori in residenza presso l’Ostrava Days Institute, che hanno mostrato un approccio fresco, genuino con la composizione e grande padronanza della scrittura orchestrale, anche se spesso ancorata a cliché molto tradizionali: si andava dalla musica gestuale, frammentaria, quasi weberniana dei Six Short Places (2012) di Devin Maxwell, a quella estroversa, eclettica di Holography (2015) per pianoforte e orchestra di Idin Samimi Mofakham (che ibridava armonie spettrali, elementi di musica tradizionale iraninana, tecniche pianistiche di tipo bruitistico, grandi gesti romantici alla Cajkovskij); da un lavoro atmosferico come Zipf’s Law IV (2017) di James Falzone, alle ondate di suono e agli effetti tellurici di Serenity (2016) di Austin Hin Yan Leung; dal virtuosistico YouHuang (II), per violino e ensemble di Daniel Lo, al raffinato …And Grackles Gone (2016) del giovanissimo newyorkese Eli Greenhoe (nato nel 1994), dove la materia orchestrale alternativamente si raffreddava o si surriscaldava, tra bolle timbriche e ampi gesti sinfonici.

 

 

Uno dei pilastri storici su cui poggia il festival è la Ostravská Banda, eccellente ensemble che si è esibito anche in un concerto-maratona di più di cinque ore (con alcune break), che ha coinvolto un pubblico vastissimo e si è concluso con un set di improvvisazioni. Tra i pezzi eseguiti spiccavano Orrorin Keen (2017) di Ben Richter, lavoro per otto fiati fatto di lunghi blocchi accordali, ruvidi, stridenti, con multifonici che gli conferivano un aspetto stranamente rugginoso; il frenetico Anthem (2011) di George Lewis, ispirato ad alcune figure retoriche shakespeariane, molto ben congegnato nella stretta integrazione tra suono strumentale, elettronica e voce (di Kate Soper), che creava una trama satura e trascinante; lo spassoso No.36 NONcerto for horn (2002) di Richard Ayres (l’allievo di Andriessen che aveva già irretito lo scorso anno il pubblico di Ostrava con l’operina #42 In the Alps), magistrale nella scrittura armonica e orchestrale, ma anche molto teatrale, capace di giocare con i cliché venatori del corno, di far correre il solista tra due palchi rialzati nel tentativo di fare l’eco a se stesso. Alle mucche al pascolo si ispirava weiße farben (2016) di Klaus Lang, altro lavoro notevolissimo, con un ordito strumentale molto denso, con grandi ondate di suono, armonie cangianti, effetti di cluster, suoni di campanacci sullo sfondo, suoni gravi della fisarmonica quasi elettronici. E da questo ordito sembravano affiorare strane melodie. L’interesse per le polifonie dense e caleidoscopiche, che tendono a saturare il totale cromatico (e che in questo ricordano molto da vicino la poetica musicale di Aldo Clementi), caratterizza anche il linguaggio di Petr Bakla, compositore ceco da tenere d’occhio. Nato a Parga nel 1980, costruisce oggetti sonori fatti di semplici stratificazioni di linee, dove elementi musicali molto semplici acquistano una grande espressività e una insospettata energia, proprio attraverso il sottile gioco di frizioni e ambiguità generate dalle loro sovrapposizioni. Ne era un esempio la prima mondiale di Summer Work (2016), che procedeva come un grande corale, ritmicamente sfasato, una massa sonora dove tutti gli strumenti avevano un preciso peso timbrico, e generavano un effetto insieme statico e policromo.

Di Bakla si è anche ammirato Major Thirds (2016), quintetto per pianoforte ed archi eseguito dal Momenta Quartet e dal pianista Joseph Kubera, basato solo su intervalli armonici di terza maggiore che creavano una superficie sonora ondeggiante, piena di sottili slittamenti, ma esplorata con tempi di scorrimento diversi, con textures di diverse densità, con diverse modalità di esecuzione, con diversi gradi di “sfocamento” dell’intervallo generatore, con sottili giochi di risonanze e echi. Nello stesso concerto, il gruppo newyorkese ha eseguito il bellissimo Quartetto n.3 di Alex Mincek, l’intimistico Meditación from Dos Bosquejos (1927) di Julián Carrillo, e il quartetto n.2 “Torso” (2013) di Petr Kotík, basato su due materiali contrapposti (un corale lento e ovattato, e un motivo rapido e omoritmico) che si combinavano in una trama strumentale molto dinamica, piena di effetti rumoristici, di improvvisi, rapidi arabeschi, con gli strumentisti che a un certo si allontanavano tra loro, creando un inaspettato gioco di spazializzazione. Pregevoli anche i pezzi dei giovani compositori in-residenceEvening Cream (2015) della canadese Rebecca Bruton partiva da frammenti di una canzone pop svedese, Cherry on the Top (del duo The Knife), trasformati in un bel gioco di incastri, in una trama minimal, incalzante, molto varia, piena di glissati, ribattuti, fluttuazioni dinamiche; Rhapsodie Of 132 (2016) dell’ungherese Bálint Laczkó, che si ispirava al Quartetto op.132 di Beethoven, era invece un pezzo frammentario, ricco di effetti percussivi, con elementi parlati e lunghe pause cariche di tensione.

Di grande impatto sul pubblico il concerto del Loadbang, originale formazione newyorkese, composta da baritono, tromba, trombone e clarinetto basso, che mira ad imporre un tipo di “sound” molto particolare, a creare un repertorio tutto nuovo, giocato talvolta su effetti bandistici, come in Ouaricon Songs (2014) di Taylor Brook, o su trame frammentate e scoppiettanti, in What Is the Word (2014) di Scott Wollschleger, o su atmosfere spoglie, piene di soffi, in Land of Silence (2012) di Reiko Füting. Spiccavano, nel programma, due pezzi: per ser plagat de ta dolça ferida (2014) di Joan Arnau Pàmies, basato su versi del poeta spagnolo Ausiàs March, trasformati in una trama trattenuta, quasi soffocata, con brevi frammenti vocali intonati in falsetto; e Number May Be Defined (2014) di Alex Mincek, fatto di pochi elementi, suoni scarni, ripetuti, ma sempre carichi di tensione, con una interazione molto originale tra le parti strumentali e quella vocale, tra la sillabazione della voce e la trama frenetica degli strumenti, che slittava continuamente come una lenta progressione. In questo lavoro, come nel già citato Quartetto n.3, Mincek (nato in Florida nel 1975, cresciuto musicalmente a New York, allievo di Tristan Murail alla Columbia University) si è rivelato uno dei compositori americani più geniali della sua generazione.

La bella, antica chiesa di San Venceslao si è rivelata spazio ideale per i concerti corali. Lì si sono esibiti i Neue Vocalsolisten, con alcuni dei loro cavalli di battaglia come i 12 madrigali di Salvatore Sciarrino, compositore molto amato da quelle parti, Menschen Hört (1997) di Stockhausen, Zwei Szenen (2011) di Friedrich Cerha, Zebaoth (2017), novità piuttosto modesta di Konstantin Heuer, e il pirotecnico Glas (2016) di Enno Poppe, che trasformava i giochi linguistici di una poesia di Georges Perec in una ricca antologia di trame polifoniche, come una progressione dalle urla primordiali ai contrappunti più articolati. La qualità del locale ensemble Canticum Ostrava, diretto da Jurij Galatenko, non era certo paragonabile a quella del blasonato gruppo di Stoccarda. Ma il loro programma era molto sfizioso, e comprendeva alcuni lavori ben riusciti come Last Words (2013) di George Lewis, composizione dalle trame polifoniche espressive e liquescenti, su versi di Charles Bernstein; e Wings (2016) di Liisa Hirsch, una delle voci più originali della nuova musica estone: il pezzo, con un organico di 12 voci e archi (quelli della Ostravská Banda) suddiviso in quattro gruppi posti agli angoli della chiesa, si basava su due scale ricavate dagli armonici naturali degli archi, su precise intonazioni microtonali, creando una sottile interrelazione tra i vari gruppi, con il suono che sembrava muoversi all’interno della chiesa, fluttuare nell’aria, ispessirsi diventando sempre più avvolgente.

Indimenticabile il concerto del pianista belga Daan Vandewalle, che ha sedotto il pubblico per un’ora con l’esecuzione del monumentale ciclo di variazioni The People United Will Never Be Defeated di Frederic Rzewski, offrendone una lettura molto personale, che tendeva ad enfatizzare i caratteri stilistici di ciascuna variazione, con un appeal quasi romantico, con un impeto che culminava nella cadenza finale, concepita come una vera e propria muraglia di suono. Salutato da una standing ovation, Vandewalle alla fine ha eseguito come bis due nuovi lavori di Rzewski (dal ciclo Songs of Insurrection) e il frenetico Inner City n.5 di Alvin Curran. In un altro concerto, intitolato “Radical Past”, e concepito come tributo all’avanguardia degli anni Sessanta, si sono ascoltati lavori di John Cage, Philip Glass, Jan Rychlík, e Hudba pro 3 di Petr Kotík, pezzo dadaista e rumoristico che alla sua prima, nel 1964, fece scandalo all’Autunno di Varsavia. Un ampio ritratto è stato poi dedicato a Rudolf Komorous, compositore ceco, nato nel 1931, trasferitosi in Canada nel 1969, e divenuto uno dei protagonisti della stagione dell’avanguardia oltreoceano.

Agli Ostrava days c’è stato spazio anche per il teatro musicale, con l’opera Here Be Sirens dell’americana Kate Soper (protagoniste tre sirene che ammazzano il tempo su un’isola in attesa dell’arrivo di qualche marinaio) e con la prima ceca di Make No Noise di Miroslav Srnka (che aveva avuto la sua prima mondiale ai Münchner Opernfestpiele, nel 2011). Opera da camera su libretto di Tom Holloway, Make No Noise si ispirava al film di Isabel Coixet La vita segreta delle parole, storia di una giovane donna, quasi sorda, che si prende cura di un uomo gravemente ferito in un incendio su una piattaforma petrolifera. E diventava una sorta di indagine sulle possibilità del canto come linguaggio, come utopia della comunicazione: il passaggio dall’impossibilità del protagonista di articolare della parole fino alla libera espressione, suggeriva al compositore una scrittura vocale che passava attraverso vari stadi di emissione, compensata da un processo inverso nella scrittura strumentale, un lungo graduale decrescendo, e accompagnata da una continua presenza dell’elettronica. Bravissimi i due protagonisti, il soprano Measha Brueggergosman e il baritono Holger Falk, con la Ostravská Banda diretta da Joseph Trafton. Il regista Jiří Nekvasil muoveva lentamente i personaggi sulla grande superficie inclinata al centro della Trojhalí Karolina (spazio interessante per un allestimento scenico, ma troppo dispersivo per un’opera da camera), sfruttando un abile gioco di luci e di proiezioni (l’uomo anziché sul letto era appoggiato a uno schermo luminoso, che conservava la sua sagoma anche quando lui se ne distaccava), immobilizzandoli improvvisamente come tableaux vivants, enfatizzando la dimensione intensa e misteriosa della vicenda.

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